Ragione pubblica e verità del cristianesimo

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roby noris
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Ragione pubblica e verità del cristianesimo

Messaggioda roby noris » sab mar 03, 2007 9:22 pm

Ragione pubblica e verità del cristianesimo negli insegnamenti di Benedetto XVI


ROMA, sabato, 3 marzo 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il saggio di monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla dottrina sociale della Chiesa, dal titolo “Ragione pubblica e verità del cristianesimo negli insegnamenti di Benedetto XVI”.



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La ragione pubblica è la ragione umana che, nel dialogo e nella ricerca, ritiene possibile conseguire alcune verità circa l’uomo e, in particolare, l’uomo in società. La ragione pubblica è una ragione critica, certamente, ma anche costruttiva, ossia in grado non solo di guadagnare il “consenso” delle opinioni, ma anche di giungere alla verità e al bene dell’uomo in società nei cui confronti essa ha una capacità conoscitiva ed argomentativa. Dalla possibilità di una ragione pubblica dipende la capacità di conoscere i fondamenti della dignità della persona, gli elementi principali del bene comune, l’indisponibilità dei diritti umani, la giustizia, il senso della libertà individuale e dei legami comunitari.

Il problema della ragione pubblica è, prima di tutto, stabilire se essa sia possibile e, secondariamente, se essa sia autosufficiente oppure abbia bisogno del rapporto con la religione e, in particolare, con la religione cristiana. Benedetto XVI ha più volte affrontato questo tema in più occasioni e luoghi, parlando da un lato della verità della ragione e dall’altro della verità delle religioni.

Uso pubblico della ragione e relativismo

La ragione pubblica non è possibile entro una cultura dominata dalla “dittatura del relativismo” [1], per una semplice ragione: il relativismo è un dogma e quindi rifiuta l’argomentazione razionale in origine, anche nei confronti di se stesso. Con il gusto del paradosso si può dire che il relativismo è un fondamentalismo. In molte occasioni, Benedetto XVI ha sostenuto che esso è ormai un dogma, o una presunzione e non può essere sostenuto se non per una specie di fede [2]. Esiste, quindi, una fede cieca nel relativismo. Questo è senz’altro contraddittorio, in quanto la parola dogma e la parola relativismo sono incompatibili. Il fatto è che il relativismo diventa una fede proprio per superare la propria contraddizione interna, ma cadendo così in una nuova. Il relativismo, infatti, non può essere argomentato. Se argomentato, esso farebbe riferimento ad una capacità della ragione di argomentare la verità. In questo caso il relativismo si contraddirebbe, ammettendo la possibilità di verità non relative. Per questo il relativismo può essere solo “assunto dogmaticamente”. Il carattere “dittatoriale” – in senso culturale - del relativismo, impedisce l’uso della ragione pubblica in quanto impedisce l’uso pubblico della ragione. Qui può essere interessante ritornare allo scritto in cui tale uso pubblico è stato per la prima volta dichiarato con forza, ossia al breve scritto di Kant dal titolo Risposta alla domanda: cos’è l’Illuminismo? del 1784. La ragione, per Kant, ha un uso pubblico di tipo critico. Per illustrare questo uso pubblico Kant si sofferma a lungo soprattutto sulla critica razionale alla religione, ossia sulla libertà e il compito del cittadino di “comunicare al pubblico tutti i pensieri, che un esame severo e coscienzioso gli ha suggerito circa i difetti di tale confessione, e di fare le sue proposte di riforma della religione e della Chiesa” [3]. La ragione ha la pretesa di essere, con le proprie categorie, il banco di prova e il vaglio anche della fede e della religione. Come mai una ragione pubblica alla quale Kant assegnava così impegnativi compiti si è ora ridotta al relativismo, il quale non solo non riesce ad essere critico nei confronti della religione ma nemmeno di se stesso?


Ragione pubblica ed autolimitazione della ragione

Il motivo è legato alla “autolimitazione” della ragione, come ha più volte detto Benedetto XVI [4]. Questa autolimitazione sta alla base dell’assunzione dogmaticamente cieca del relativismo e della sua incapacità a svolgere ogni ruolo critico. Solo se sono state drasticamente limitate le possibilità della ragione, nasce la fede nel relativismo. L’autolimitazione della ragione consiste nel suo ridursi al sapere matematico-sperimentale [5], ossia ad un tipo di razionalità che non è in grado di fondare nemmeno il relativismo. A questo tipo di sapere - quello matematico sperimentale -, il relativismo semplicemente “non risulta”, né può risultare, in quanto esso non è un fatto empiricamente cnstatabile. Il relativismo non è un fatto ma una filosofia e la sua fondazione richiederebbe una argomentazione di altro tipo, che però la ragione autolimitata esclude. Ecco perché è possibile o un relativismo “implicito”, vissuto e non motivato, o un relativismo “assunto” dogmaticamente, ossia accolto per fede. In questo senso, quindi, la “dittatura del relativismo” è la conclusione necessaria dell’ “autolimitazione” della ragione. Con esso però fallisce il ruolo pubblico della ragione.

A ben vedere tale autolimitazione era già presente nel pensiero di Kant. Nella sua operetta del 1784 ricordata sopra egli aveva la “pretesa” di assegnare alla ragione un ruolo pubblico addirittura di critica alla religione, ma si trattava di una pretesa incauta in quanto la sua visione della ragione era già ridotta al sapere matematico-sperimentale. Ecco perché quella pretesa va respinta ma, respingendola e mostrando come essa conduca al relativismo, va anche detto che una diversa ragione, mantenuta nella sua ampiezza di respiro, può esercitare un ruolo pubblico e può anche esercitare una specie di critica alla religione. Nel 2004 il cardinale Ratzinger partecipò ad un dibattito a Monaco di Baviera con il filosofo Jürgen Habermas proprio sul ruolo pubblico della ragione [6]. In quell’occasione egli sostenne che se il terrorismo alimentato dal fanatismo religioso esprime una possibile patologia della religione che deve essere corretta dalla ragione, così il potere scientifico-tecnico di produrre esseri umani esprime una patologia della ragione che chiede di essere corretta dalla religione. Questa la sua conclusione: «Ci sono patologie della religione, che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come un organo di controllo [...] esistono patologie anche della ragione che non è meno pericolosa […] perciò anche alla ragione devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose dell’umanità» [7]. Come si vede egli assegna alla ragione una capacità di “controllo” rispetto alla religione. Il cristianesimo, quindi, non chiede alla ragione di fuggire dal suo ruolo pubblico, le chiede di svolgerlo in pieno, ma per farlo essa ha bisogno di riscoprirsi grande. Il cristianesimo vuole una ragione capace di respirare ed è disposto ad aiutarla ad esserlo. Da questa ragione esso vuole essere “messo alla prova”.

Relativismo filosofico e relativismo religioso

Qual è il contraccolpo della dittatura del relativismo e di una visione così riduttiva della ragione nei confronti delle religioni? Il contraccolpo del relativismo filosofico non può essere che il relativismo religioso: tutte le religioni sono uguali e, nello stesso tempo, diverse. Esse sono irrazionali, rappresentano una scelta immotivata e, come tali, non sono confrontabili tra loro. Il relativismo, immotivatamente dogmatico, considera le religioni come immotivate. Siccome lo fa immotivatamente, non riesce a dimostrarlo e, quindi, semplicemente “ci crede”. Il relativismo “crede” che le religioni siano immotivate e, quindi, non confrontabili. In altre parole crede che le religioni non abbiano nulla a che fare con la ragione e con la verità. Le religioni sono quindi tutte dogmatiche, nel senso triviale del termine, ossia nel senso di “accettate senza motivazione” [proprio come il relativismo, ma il relativismo questo non sembra saperlo]. Nella vulgata relativistica corrente, infatti, la parola dogma significa genericamente e superficialmente “qualcosa che è accettato immotivatamente e quindi in modo acritico”. Come il relativismo filosofico sottrae alla ragione un vero e proprio ruolo pubblico, così il corrispondente relativismo religioso sottrae la religione ad un suo ruolo pubblico. Come vedremo meglio in seguito, il ruolo pubblico della ragione e quello della fede religiosa si reggono o muoiono insieme.

In questo modo tutte le religioni sono ridotte a mito, cioè ad un modo per esorcizzare delle forze misteriose, bizzarre e irrazionali. Se le religioni sono immotivate significa che le forze divine cui esse si riferiscono sono irrazionali e che nel mondo predomina l’arbitrio. Se le forze primordiali sono arbitrarie, la religione è una forma di assicurazione contro i contraccolpi di questa imponderatezza. Il relativismo religioso regredisce quindi ad una specie di primitivismo religioso: la religione è un modo per esorcizzare forze irrazionali.

La critica dei Greci e di Israele alla religione come mito

Considerare la religione come qualcosa di irrazionale è, secondo Benedetto XVI, in completo contrasto con tutta la nostra storia occidentale e cristiana. Infatti, sia il pensiero greco, sia la religione ebraica, sia naturalmente il cristianesimo, si erano opposti alla religione come mito, puntando risolutamente alla religione come conoscenza e a Dio come Logos [8].

Diamo un breve sguardo al pensiero greco. Se si esaminano le religioni greche “dei misteri” e perfino la religione olimpica, ci si trova di fronte alle caratteristiche del mito pre-razionale: forze misteriose e insondabili, spinte arcane, oscure, sotterranee, arbitrarietà degli déi per cui una stessa azione umana può essere buona o cattiva se vista dall’ottica di una o dell’altra divinità, lavorio dell’uomo per placare le ire divine ed esorcizzare queste forze imprevedibili. Ma i Fisici ionici cercano l’Arché, che è il nomos che fa di un caos un cosmo, i Pitagorici affermano che tutto è misura, e per Anassagora un Intelletto puro, separato e nobilissimo, governa tutte le cose. Nell’Eutifrone platonico, Socrate chiede ad Eutifrone cosa sia il santo e quando un’azione possa dirsi santa. Eutifrone risponde che santo è ciò che è caro agli dèi. Socrate fa allora notare che agli déi sono care cose diverse, e poi pone la domanda decisiva: “il santo è santo perché caro agli dèi o è caro agli dèi perché santo”? Nel primo caso gli dèi sono arbitrari, nel secondo caso sono legati alla verità e al bene. Come si vede, la questione posta da Benedetto XVI a Regensburg, utilizzando la citazione dell’Imperatore di Costantinopoli Manuele II Paleologo - «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio» [9] - ha radici profonde e lontane. La domanda di Socrate pone la questione se gli déi siano capricciosi e arbitrari come dei saltimbanchi o se essi stessi seguano la verità e il bene. Eutifrone non risponde, ma la pista era ormai stata segnata da Socrate e verrà sancita da Platone: “Gli dèi non sono stregoni intenti a trasformarsi e a menarci fuor di strada con false parole ed opere” (Resp., II, 383 a). La filosofia greca si stacca quindi dal mito e punta decisamente verso Dio come Logos. Per Aristotele la Sostanza soprasensibile è Intelligenza che eternamente intuisce se stessa. Il mondo ha un ordine ed è trasparente alla ragione che lo può conoscere, perché gli déi sono razionali e operano secondo verità, come il Demiurgo platonico, che non plasma le cose a caso, ma ispirandosi alle verità delle forme eterne.

Se diamo uno sguardo alla religione ebraica troviamo lo stesso percorso [10]. Il “Dio dei padri” cui tende Israele, non è un dio locale o politico, non è Baal né Moloch. Egli è “colui che è”, colui che esiste prima di tutte le potenze e continuerà ad esistere anche dopo di loro. Il Dio di Abramo non è proprio di un luogo ma è dappertutto. Egli non è legato ad alcuna particolarità, non dipende da upopolo e non dipende nemmeno dal Tempio, non ha bisogno di sacrifici. Egli è la Sapienza di cui il mondo è un riflesso, è lo Spirito capace di produrre materia [11]. Come la filosofia greca si autosupera e va oltre la propria religione del mito, così la fede di Israele lo strappa dalla appartenenza ad un popolo.

Per tutti questi motivi, Benedetto XVI ha detto a Regensburg che c’è una profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Nel cristianesimo tutto ciò ha trovato una sintesi definitiva: per il Vangelo di San Giovanni Gesù Cristo è il Logos, è la sapienza di Dio attraverso cui tutte le cose sono state fatte. Il cristianesimo non si rifà alle molteplici religioni del tempo, alle religioni del mito, ma propone Dio-verità ricollegandosi direttamente al pensiero greco e sviluppando ulteriormente l’esperienza di Israele. Esso si richiama “a quel divino che può essere concepito nell’analisi razionale della realtà … Nel cristianesimo la razionalità è diventata religione” [12] Noi, ha detto Benedetto XVI in Germania, crediamo che all’origine c’è il Verbo eterno, la Ragione e non l’Irrazionalità [13]. Giustino (II secolo) riteneva che il Verbo avesse posto i suoi semi anche nella filosofia greca, in quanto ciò che è vero per ragione viene anch’esso dal Verbo. Clemente di Alessandria riteneva addirittura che la filosofia greca fosse stata una rivelazione naturale del Dio cristiano. Il pericolo di scivolare verso un Dio irrazionale è stato frequente, ma è sempre stato combattuto e vinto dall’autentica linea ortodossa fatta propria dalla Chiesa. Guglielmo di Occam, nel XIV secolo, sosteneva che Dio, nella sua onnipotenza, poteva fare il mondo all’opposto di come l’ha fatto. Egli, nella sua assoluta libertà, poteva darci come tavola della legge l’esatto opposto dei dieci comandamenti. Occam recepiva e rilanciava molte posizioni simili precisatesi nei secoli precedenti e che si sarebbero ripresentate nei successivi, specialmente dopo la riforma protestante. Esse ritenevano che un Dio sottomesso alla verità non fosse un Dio onnipotente. Il punto è questo: nemmeno Dio può dare l'essere ad una cosa intrinsecamente impossibile? Questo appunto sosteneva Occam: dire che Dio non può dare l’essere ad una cosa intrinsecamente impossibile significa limitare l’onnipotenza divina. Poi intervenne San Tommaso. Il suo parere é il seguente: «Ciò che implica contraddizione non è contenuto sotto la divina onnipotenza, perché non può essere inteso come possibile. Onde è più conveniente dire che esso non può essere fatto, piuttosto che dire che Dio non lo può fare». Quella divina non è un’ onnipotenza arbitraria e capricciosa, ma sapiente.

Il Cristianesimo e l’uso pubblico della ragione

Il cristianesimo, e specialmente il cattolicesimo, non può accettare il relativismo filosofico, non può agganciarsi a filosofie che escludano il problema della verità. Significherebbe negare la creazione e l’esistenza di una Sapienza ordinatrice. Per lo stesso motivo il concetto razionale di “natura umana”, oggi messo in discussione, è irrinunciabile. Quindi, la fede cristiana conferma e sostiene la ricerca razionale della verità e spinge per un ruolo pubblico della ragione, teso anche a criticare le religioni. Infatti, non si può dire che tutte le religioni si rapportino con la verità e con la ragione allo stesso modo del cristianesimo. Esse si rapportano con la verità e con la ragione in modo diverso, il che equivale a dire che sono più o meno razionali e che possono più o meno sostenere adeguatamente il ruolo pubblico della ragione. E’ stato l’argomento toccato dal papa a Regensburg. Un Dio che propone la violenza non è un Dio razionale, in quanto la ragione ripugna la violenza come mezzo di trasmissione della fede. Ciò che non è razionale non può venire dal vero Dio.

Notiamo qui un criterio di valutare le religioni assai importante e, per certi versi, nuovo ai nostri occhi. Le religioni riguardano la salvezza eterna. Il relativismo religioso afferma che su questo esse sonoincommensurabili, non si può stabilire quale sia più razionale. Però, oltre a prospettare una salvezza eterna, le religioni dicono anche come essa cominci già qui [14]. Se una religione propone una forma di vita non giusta, non conforme alla verità dell’uomo in questo mondo, non può essere una religione vera. Solo se l’uomo ha perso di vista la capacità di conoscere ciò che è bene e ciò che è vero, tutte le proposte di salvezza diventano uguali. Se mancano i criteri di una vita giusta, allora tutte le religioni sono uguali. Se si relativizzano i criteri della vita giusta, allora l’uomo rimane prigioniero delle religioni. Con ciò si torna a dimostrare che il relativismo religioso si fonda sul relativismo filosofico. Il cardinale Ratzinger fa notare che San Paolo (Rm 2,14 ss) non dice che chi non è cristiano si salverà seguendo la propria religione, ma seguendo la ragione naturale.

Bisogna però sempre ricordare che è vera anche l’influenza di senso inverso: il pluralismo religioso alimenta a sua volta il relativismo filosofico. Infatti, Benedetto XVI ha ricordato che “La convergenza dei diversi non deve dare l’impressione di un cedimento a quel relativismo che nega il senso stesso della verità e la possibilità di attingerla” [15].

Il bene comune e la verità delle religioni

Se è possibile criticare le religioni a partire dalle ragioni dell’uomo, deve essere possibile criticarle anche a partire dalle ragioni dell’uomo in società [16], ossia da una ragione pubblica. Ne consegue che non tutte le religioni sono ugualmente rispettose del bene dell’uomo in società. Ne consegue anche che il potere politico che voglia organizzare la società secondo ragione, non solo non può considerare le religioni allo stesso modo ma dovrebbe anche coltivare i propri doveri nei confronti della vera religione. Naturalmente, se il potere politico si fonda sulla democrazia relativista non sentirà nessun obbligo di questo genere. Il relativismo, infatti, non può esprimere nessuna ragione pubblica, se non di tipo procedurale. Quando la verità è sostituita dalla decisione della maggioranza, la cultura viene contrapposta alla verità. La presunzione relativistica produce lo sradicamento spirituale e la distruzione della compagine comunitaria [17]. Il relativismo considera tutte le religioni come equivalenti. Lo fa per la sua incapacità di fare una critica razionale pubblica alle religioni in quanto per il relativismo non c’è un bene comune razionalmente individuabile. Così facendo, esso preclude la possibilità che la religione vera sostenga religiosamente quanto gli uomini fanno per conseguire il bene comune. Anche qui si nota una spirale negativa. La democrazia relativista produce relativismo religioso e questo rafforza il relativismo etico e sociale.

Tutto questo accade quando una società non è più in grado di criticare secondo una ragione pubblica una religione che proclami la poligamia, che proponga il rito delle mutilazioni fisiche, che non rispetti la dignità della donna, che predichi la violenza, oppure che proponga percorsi religiosi di spersonalizzazione o di assopimento della ragione umana e della conoscenza. Perso di vista l’umano autentico, come potrà la nostra ragione pubblica discernere tra le religioni?

Lo Stato, la Chiesa e il problema delle reciprocità

I rispettivi ruoli dello Stato e della Chiesa risultano chiari, nella loro distinzione complementare, se esaminiamo a titolo di esempio la cosiddetta “reciprocità”. Benedetto XVI ha più volte affermato l’importanza del dialogo tra le religioni. Lo ha fatto specialmente nel suo viaggio in Turchia. Il contesto del dialogo prevede però la reciprocità, senza di cui non può dirsi vero dialogo. Il problema è questo: spetta alla Chiesa o allo Stato pretendere tale reciprocità? Non spetta alla Chiesa, la quale deve farsi guidare dalla carità e dalla verità. Nei confronti dei fedeli delle altre religioni essa ha solo il dovere di testimoniare la carità e la verità di Gesù Cristo. La reciprocità dovrebbe invece guidare l’opera degli Stati che riconoscono nel cristianesimo elementi di verità pubblica, ossia un contributo fondamentale per il bene comune. Spesso questi Stati riconoscono questo contributo del cristianesimo sul piano della loro storia e della costruzione della identità culturale. Questo è molto importante: riconoscere che le proprie radici affondano nel pensiero greco, nella religione ebraica e nel cristianesimo costituisce un momento fondamentale di acquisizione della coscienza della propria identità. Tuttavia, non è sufficiente, in quanto purtroppo il passato può essere dimenticato e, dato il veloce disincanto delle nuove generazioni, è possibile che, anche in presenza di esempi storici, artistici e culturali della funzione civilizzatrice del cristianesimo, la sua importanza per la vita sociale sia persa di vista. Oltre al criterio della storia e della cultura è necessario quello della verità, ossia della razionalità pubblica. Da questo, poi, deriveranno anche segni di apprezzamento verso la nostra storia passata e l’orgoglio di avere una certa identità. Se, invece, manca l’idea che il cristianesimo ha una sua verità conforme all’umano e corrisponde più di altre confessioni religiose all’autentica ragione pubblica, anche l’apprezzamento della nostra storia passata e l’orgoglio della nostra identità verranno meno. Quando Benedetto XVI si è chiesto con amarezza se l’Occidente ami veramente se stesso [18], intendeva dire proprio questo: ama veramente la verità che è in se stesso?

Il dialogo tra le religioni non si fonda su nessun relativismo o indifferentismo religioso. Ciò è vero per la religione cattolica, ma è vero anche per una ragione pubblica che non abbia completamente ceduto alla dittatura del relativismo. Proclamando il diritto alla libertà religiosa la Chiesa non ha mai voluto negare né che il cristianesimo sia la religione vera, né che lo Stato abbia dei doveri nei confronti della religione vera. Secondo il Decreto Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II il diritto alla libertà religiosa «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» [19] Ora, da dove derivano per lo Stato, che è laico, questi doveri verso la religione vera? Non dal fatto di essere uno stato “cristiano”. Essi derivano dalla ragione, ossia dalla capacità naturale di vedere delle verità circa l’uomo ed anche circa l’uomo in società; deriva dalla capacità di intelligere il bene comune. Su questo si fonda anche la capacità di vedere che una religione consolida e aiuta a perseguire obiettivi di umanizzazione mentre un’altra contribuisce a degradare l’uomo. La religione cristiana vanta questa pretesa, la pretesa di predicare un “Dio dal volto umano” [20] .


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[1] “Avere una fede chiara, secondo il credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare ‘qua e là d qualsiasi vento di dottrina’ appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla di definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” (J. Ratzinger, Omelia alla Messa “Pro Eligendo Romano Pontifice”, 18 aprile 2005, in “L’Osservatore Romano”, martedì 19 aprile 2005). Cfr anche Benedetto XVI, Discorso in San Giovanni in Laterano all’apertura del Convegno ecclesiale diocesano di Roma in “L’Osservatore Romano”, 8 giugno 2005, p. 7. Cf l’analisi di G. Crepaldi, Brevi note sulla laicità secondo J.Ratzinger-Benedetto XVI, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa”, gennaio febbraio 2006, pp. 3-16.

[2 ] Espressioni come “il dogma del relativismo”, “la presunzione del relativismo”, o il relativismo come “la religione dell’uomo moderno” sono frequenti nell’opera: J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003.

[3] I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminsmo?, in Scritti politici di filosofia della storia e del diritto di Immanuel Kant, con un saggio di Christian Garve, tradotti da Gioele Solari e Giovanni Vidari, edizione postuma a cura di Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Vittorio Mathieu, UTET, Torino 19953, p. 144.

[4] “Autolimitazione della ragione” è l’espressione adoperata da Ratzinger (J. Ratzinger. L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, pp. 48-49).

[5] Si tratta di una “razionalità puramente funzionale” secondo la quale “razionale è soltanto ciò che si può provare con degli esperimenti” (J. Ratzinger. L’Europa di Benedetto cit., p. 36).

[6 ] J. Ratzinger, Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune, in J. Habermas-J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Padova 2005.

[7] J. Ratzinger, Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune cit., pp. 79-80.

[8] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, 12ma edizione con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2003, pp. 99-110: “Il Dio della fede e il Dio dei filosofi”.

[9] Benedetto XVI, Discorso all’Università di Regensburg, 12 settembre 2006.

[10] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo cit., pp. 79-98: “La fede in Dio prospettataci dalla Bibbia”.

[11] Più volte e in molti luoghi Benedetto XVI si chiede, retoricamente, se sia più razionale pensare ad una Sapienza che crea la materia o alla materia che crea la sapienza.

[12] J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza cit., p. 178.

[13] «In fin dei conti resta l’alternativa: che cosa esiste all’origine? La Ragione creatrice e lo Spirito creatore, che opera tutto e suscita lo sviluppo, o l’Irrazionalità che, priva di ogni ragione, stranamente produce un cosmo ordinato in modo matematico e anche l’uomo, la sua ragione» (Benedetto XVI, Omelia all’”Islinger Feld” di Regensburg, 12 settembre 2006, in “L’Osservatore Romano”, 14 settembre 2006, p. 5).

[14] «Bisogna chiedersi cos’è il Cielo e come avviene sulla terra. La salvezza nell’aldilà deve delinearsi in una forma di vita che rende qui l’uomo “umano” e perciò conforme a Dio” (J. Ratzinger, Fede, verità e cultura. Riflessioni in relazione all’enciclica Fides et Ratio, Madrid, 16 febbraio 2000, Supplemento a “Tracce”, marzo 2000, p.26).

[15] Benedetto XVI, Messaggio al Vescovo di Assisi in occasione del XX anniversario dell’Incontro interreligioso di Preghiera per la Pace del 27 ottobre 1986, in “L’Osservatore Romano”, 4-5 settembre 2006, p. 5. «Non si devono vedere automaticamente in tutte le religioni vie di Dio verso l’uomo e dell’uomo verso Dio» (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza cit., p. 78. Sul tema della preghiera interreligiosa per la pace e sulla possibilità che essa favorisca il relativismo, Ratzinger si è interrogato, dando alcune chiare risposte, anche in Fede Verità Tolleranza cit., pp. 110-114.

[16] «La salvezza inizia con la giustificazione dell’uomo in questo mondo,che comprende sempre i due poli del singolo individuo e della comunità” (J. Ratzinger, Fede, verità e cultura cit., p. 26).

[17] J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza cit., p. 75.

[18] J. Ratzinger, L’Europa.I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, in M. Pera – J. Ratzinger, Senza radici. Europa relativismo cristianesimo islam, Mondadori, Milano 2004, p. 71.

[19] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Dignitatis humanae sulla libertà religiosa (7 dicembre 1965), n. 1.

[20] Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona, 19 ottobre 2006, in “L’Osservatore Romano”, 20 ottobre 2006, p. 6. “Dio con un volto umano” ha inoltre detto il 3 novembre 2006 nel Discorso alla Pontificia Università Gregoriana, in “L’Osservatore Romano”, 4 novembre 2006, p. 6.
ZIA07030301

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