E così lo ricorda Padre Mauro Lepori, abate di Hauterive in un'intervista di Dante Balbo in onda su Caritas Insieme TV il 5 marzo (vedi sommario trasmissione)
http://www.caritas-ticino.ch/Emissioni%20TV/500/533.htm o scaricabile direttamente
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Ecco il testo dell'intervista pubblicata anche sulla rivista Caritas Insieme
http://www.caritas-ticino.ch/riviste/el ... orecco.pdf
IL MESSAGGIO DI CORECCO È LA CARITÀ
Il ricordo di Padre Mauro Lepori, abate di Hauterive
Di Dante Balbo
La saggezza della Chiesa, maturata in secoli di cammino, ha bisogno di tempi lunghi, di ritmi pacati per essere metabolizzata, accolta, capita e giudicata. Che ne sarà di questa eredità antica ora che in poco più di un secolo si è passati dal cavallo alla posta elettronica? Queste erano le riflessioni che ci accompagnavano in auto durante il viaggio che ci avrebbe condotti ad Hauterive, dove padre Mauro Lepori ci aspettava per un’intervista, nella quale ricordare il Vescovo Eugenio, nel decimo anniversario della sua morte.
Il paesaggio innevato della campagna friburghese e la tranquilla imponenza silenziosa dell’abbazia, con l’operoso formicolare dei monaci intenti alle loro incombenze, sembrò rispondere alle nostre inquietudini, ma non prevedevamo certo che una risposta ben più solida ci sarebbe venuta proprio dal fluire dei ricordi e delle riflessioni dell’abate dell’antico monastero cistercense, attorno alla persona dell’amico, docente prima e vescovo poi, che tanta importanza ebbe nella sua formazione di uomo e di monaco.
L’intervista, andata in onda il 5 marzo 2005 a Caritas Insieme TV su TeleTicino, si è svolta come una passeggiata tranquilla attorno alle mura del convento benedettino, con la neve che, sempre più fitta, attenuava i contorni delle cose, trasportandoci in un mondo ovattato, senza tempo, immersi sempre più nella profondità della vita di un Vescovo che a dieci anni dalla sua scomparsa dalla scena pubblica, lasciava ancora tracce indelebili nella vita di coloro che avevano avuto la grazia di incontrarlo.
Padre Mauro così esordisce: “più che le sue parole, era il suo sguardo, il modo in cui mi insegnava a giudicare la vita, a formarmi come pastore, attingendo alla sua stessa pastoralità di uomo che offriva la vita per coloro che gli erano affidati […] la carità pastorale come dono di sé, come responsabilità nell’aiutare gli altri a camminare verso il loro Destino, verso la pienezza della loro vita. E’ questo che sento di avere dentro, una paternità che mi è stata data che ora mi permette di essere in un certo modo con i miei confratelli, con le persone che mi sono state affidate.”
“Spesso pensiamo che un vescovo è impegnato a governare una struttura, a gestire un potere, cosa c’entra quindi la paternità?”
“Credo che questa sia stata proprio una delle prove più dure per il Vescovo Eugenio, uno dei dilemmi che più lo hanno assillato nella sua vita di pastore, quando si vedeva costretto a dedicare lungo tempo al disbrigo delle faccende di governo, mentre sentiva che il cuore della sua vocazione di Vescovo era proprio il lavoro pastorale. Ho in mente colloqui e scritti in cui si lamentava per tutto il tempo che l’amministrazione gli sottraeva alla possibilità di consacrarsi ai giovani, alla sua gente, al popolo che gli era affidato. Di questa carità infatti viveva e respirava e di questo fecondo dono di sé riempiva ogni momento disponibile, sia negli incontri, sia nei suoi scritti.”
In un mondo avviluppato nella mediocrità di un pensiero senza sostanza, un vescovo colto, un uomo di pensiero, non si può ridurre ad un sentimentale affamato di rapporti umani. Sicuramente il cristianesimo del Vescovo Eugenio è fondato su solide basi culturali. Padre Mauro che mi cammina acanto, quietamente avvolto nel suo mantello ad affrontare la sferzata gelida della neve e con la pazienza con cui il manto bianco dell’inverno modella le prospettive e gli orizzonti, tenta di portarmi oltre gli affanni quotidiani…
“Senz’altro in lui c’era un uomo colto che sulla sua esperienza ecclesiale lavorava anche con tutti gli strumenti dell’intelligenza, della cultura e della teologia, ma non c’era dualismo in lui tra questi diversi ambiti. Quando abitavo con lui, a Friborgo, quando era docente e non ancora Vescovo, vi era assoluta simbiosi e continuità fra il lavoro pastorale che in tutta semplicità conduceva con noi studenti e il suo impegno di teologo, d’insegnante e di canonista. A pranzo si poteva parlare di noi, oppure senza differenza, incontrare un suo collega professore, un altro teologo, o dialogare delle cose che insegnava lui stesso.
Anche il modo di insegnare e concepire il diritto canonico, la materia che gli valse il prestigio accademico internazionale, era assolutamente legato al suo vissuto di credente, non semplice speculazione scientifica, ma espressione anch’esso del mistero stesso di Gesù Cristo.”
“La diocesi ha conosciuto il suo vescovo soprattutto quando nella malattia ha svelato il suo volto più profondo, più umano. Non si può non andare con il pensiero al Santo Padre e alla sua testimonianza di “servo sofferente”!”
Di sotto il cappello che lo ripara dallo sfarfallio insistente dei fiocchi, padre Mauro riprende la mia considerazione dandole spessore e consistenza:
“Certo, la malattia però mette in evidenza, rende pubblico un tratto che nel vescovo esisteva già prima, è l’apice di un’attenzione pastorale, di un’offerta di sé, di una carità che chi lo ha conosciuto prima aveva già sperimentato, fin dai tempi dell’università.
L’analogia con l’esperienza del Pontefice è straordinaria, perché viene effettivamente il momento in cui il pastore opera attraverso la sofferenza, l’offerta di sé, l’impotenza nell’esercitare il proprio ministero, l’impossibilità addiritura di annunciare la parola. Allora non resta altro che il dono della propria vita, l’offerta della propria malattia davanti a dio, per gli altri.”
“In gesù questa totale donazione di sé si chiama eucarestia, cui significativamente il Papa ha dedicato questo anno liturgico. Viene spontaneo allora chiedersi che rapporto avesse il vescovo Eugenio con il sacramento della Comunione.
“tutti sanno che il vescovo eugenio non era un bigotto, né un pietista, ma proprio per questo l’eucarestia era al centro della sua pietà e della sua preghiera. Lo disse anche ad un ritiro per religiose che ho avuto recentemente l’occasione di leggere, ma soprattutto lo si vedeva in tutta la sua vita, nel suo lavoro pastorale. Non passava ore in adorazione, ma per lui eucarestia e comunione nella chiesa erano la stessa cosa, nella gerarchia e nella fraternità. Durante la malattia, chi gli è stato vicino ha potuto vedere come proprio nell’offerta della sua sofferenza fosse strettamente unito all’eucarestia, nella messa finché ha potuto celebrarla, o nel ricevere la comunione verso la fine. In quei momenti sostava unendosi profondamente a Cristo e si vedeva che in questa comunione stava tutto il suo sostegno.
Ma scriveva ancora alle suore, che la comunione non deve diventare il nostro rifugio pietistico ma il centro della nostra esperienza di comunione nella chiesa e questo era ciò che anch’egli non solo predicava, ma viveva fino in fondo.”
“il pastore della nostra diocesi ha dovuto faticare, soffrire e spogliarsi di sé per conquistare il cuore dei fedeli, sospettosi della sua provenienza da un movimento ecclesiale preciso. Come poteva essere un uomo di comunione, senza rinunciare alla sua identità?”
“Il vescovo Eugenio aveva una appartenenza ecclesiale precisa, che proprio per questo gli ha fatto scoprire la chiesa, la sua universalità, la sua ecumenicità. Malgrado il pregiudizio di alcuni, sfido chiunque a dimostrare che questo lo abbia rinchiuso in un ghetto, gli abbia impedito di essere cattolico nel senso più ampio e completo del termine, nell’esercizio della sua fede, nella pratica di teologo e di vescovo.
C’è un modo di intendere l’appartenenza ecclesiale come diluita e sfumata, in nome di una falsa tolleranza, che non serve a niente, nemmeno al dialogo, mentre proprio la chiarezza di posizione permetteva a Mons. Eugenio di confrontarsi serenamente anche al di fuori dell’ambito strettamente cattolico.”
Possiamo tornare all’intimità dei ricordi, che la neve, ormai una cortina compatta di fiocchi danzanti, favorisce, immergendoci sempre più in un mondo di luce soffusa, quasi crepuscolare. Basta un cenno:
“Padre Mauro, amicizia era una parola preziosa nel vocabolario del primate della chiesa che è in ticino. Ci aiuti ad entrare in questo intimo paesaggio del suo amico don eugenio!”
“era uhn uomo capace di gioia e di festosa amicizia, che dedicava gran tempo ai rapporti umani, basta osservare il suo enorme epistolario, ma soprattutto coniugava amicizia e carità.
Se non ci fossimo incontrati nell’esperienza della chiesa, probabilmente, io e lui non saremmo diventati amici, per differenze di carattere, ma soprattutto perché io ero giovane, immaturo, limitato. Eppure proprio in questo ho potuto sperimentare la sua carità, la sua capacità di andare oltre il sentimento, per costruire una relazione ben più solida e sicura, perché fondata in Cristo, un rapporto che poteva sempre ricominciare da capo, senza mai spezzarsi del tutto. Io avevo 19 – 20 anni, quindi a volte doveva necessariamente correggermi, potevo comportarmi in modo da dispiacergli, ma non mi lasciava mai, mostrandomi che ci teneva davvero, era realmente appassionato alla mia vita. Certo era schietto e non rinunciava a dire la verità, e questo forse ha allontanato da lui più di qualcuno, ma non era mai il primo a rompere il rapporto, anzi, proprio in quei momenti cercava di approfondirlo.
Chi lo ha seguito e ci è stato lo ha capito e, fino alla fine, la relazione è diventata sempre più intensa e ricca.
Ricordo gli ultimi mesi, le ultime settimane, quando ci incontravamo, era un puro essere uno accanto all’altro e sapersi in compagnia senza doversi dire gran che, conoscendo però il legame profondo, la comunione che ci univa.
Quando ormai era in ospedale a Berna e non riusciva a stare sveglio a lungo, mi diceva: “non andartene, stai qui con me, prega e basta.” Poi, quando si svegliava riprendeva semplicemente: “Credo proprio che la tua preghiera e la tua compagnia mi abbiano fatto bene.” Non ci siamo detti molto di più, ma ho capito che quella era vera comunione.”
C’è molto di più dietro le parole, una vita condivisa, un cammino di gratitudine e stupore, una intensità tutta umana eppure impregnata di soprannaturale presenza che schiude come un’ampolla di profumo il ricordo del vescovo Eugenio, quel suo modo essenziale eppure attento che ti faceva sentire al centro della sua vita anche se aveva solo un minuto da dedicarti, quella misura nelle parole, quasi che sprecarle fosse una bestemmia contro dio e contro la dignità dell’uomo.
“Uomini come il vescovo Corecco sono rari?”
Il mio compagno di viaggio, ormai dimentico della neve che lo sommerge, si lascia riscaldare il cuore dalla luce di una constatazione semplice e immortale allo stesso tempo, dall’eredità di un uomo che ha abbracciato la sua fede senza remore:
“Purtroppo credo che siano rari; però credo che sia più importante vedere come uomini come Corecco mostrano che è possibile che ce ne siano, e che è possibile tendere a essere come lui, come atteggiamento e come carità.
Il vescovo Eugenio era un uomo assolutamente normale. C’era in lui un modo di vivere la fede e la carità, amando la chiesa e le persone, in cui ha saputo essere eroico e totalmente umano. Non c’era nessuna sublimazione artificiale anche nel vivere la malattia e la sofferenza, tanto che non aveva nessun timore a riconoscere con semplicità le sue paure, le sue angosce. Ci ha proprio mostrato un modo di essere cristiano che è totalmente umano, quindi, assolutamente possibile. La sua rarità, dunque, può diventare patrimonio di tutti, anzi, l’identità di ogni persona.
Questa allora è l’eredità più grande del Vescovo eugenio, la possibilità per tutti di una pienezza di umanità in Cristo, il cui nome è Carità, offerta della vita.
Me ne sono accorto pienamente acanto a lui, in cattedrale, quando era già nella bara e lo accompagnavamo nell’ultimo viaggio. Il messaggio che ci lasciava era la carità, un messaggio che non si esaurisce mai, che non finiremo mai di accogliere, perché la carità è inesauribile e infinita. Quando una persona giunge a viverla fino a donare la vita, fino alla morte, la sua eredità non avrà mai fine. Per questo dieci anni non sono una distanza dal vescovo Corecco, come non lo saranno venti o cinquanta, perché saremo sempre contemporanei alla sua testimonianza d’amore, al dono della sua vita.”
Quello che non si vede nel video dell’intervista è che poco dopo, come un segno di benigna approvazione del Cielo, la neve, così come improvvisamente era venuta, si è ritirata, lasciando il posto ad uno splendido sole.