HABEMUS PAPAM

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roby noris
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HABEMUS PAPAM

Messaggioda roby noris » mar apr 19, 2005 9:20 pm

con grande soddisfazione ho accolto la notizia del nuovo papa Benedetto XVI. Ratzinger mi è sempre piaciuto per la lucidità del pensiero, la nobiltà del personaggio e l'umiltà, la precisione. Si può non essere daccordo con lui, non condividere il rigore delle sue posizioni quale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ma bisogna riconoscergli un fascino straordinario, per il suo pensiero, la sua analisi, la possibilità di arricchirsi nel confronto con lui. E poi è stata una delle colonne del papato di Giovanni Paolo II, "un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore" come si è definito, ma che classe! In un mondo dominato dal pensiero debole forse la Chiesa nello sfascio culturale della realtà occidentale ha una nuova carta molto importante da giocare con Benedetto XVI.

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CARDINALE RATZINGER ELETTO AL PONTIFICATO: BENEDETTO XVI

CITTA' DEL VATICANO, 19 APR. 2005 (VIS). Il Cardinale Joseph Ratzinger è stato eletto Sommo Pontefice, 264° successore di Pietro, ed ha scelto il nome di Benedetto XVI.


Alle ore 18.48, il Santo Padre Benedetto XVI, preceduto dalla Croce, si è affacciato alla Loggia esterna della Benedizione della Basilica Vaticana per salutare il popolo e impartire la Benedizione Apostolica "Urbi et Orbi".

Prima della Benedizione il nuovo Pontefice ha rivolto ai fedeli le parole che seguono:


"Cari fratelli e sorelle, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore".

"Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere".

"Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti. Il Signore ci aiuterà e Maria sua Santissima Madre starà dalla nostra parte. Grazie".
OP/ELEZIONE BENEDETTO XVI/... VIS 050419 (90)

BIOGRAFIA DI PAPA BENEDETTO XVI

CITTA' DEL VATICANO, 19 APR. 2005 (VIS). Riportiamo di seguito la biografia ufficiale del nuovo Papa Benedetto XVI, Cardinale Joseph Ratzinger.

Il nuovo Pontefice eletto Benedetto XVI, Cardinale Joseph Ratzinger, finora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Pontificia Commissione Teologica Internazionale, Decano del Collegio Cardinalizio, è nato in Marktl am Inn, in Diocesi di Passau (Repubblica Federale di Germania), il 16 aprile 1927. Il padre, commissario della gendarmeria, proveniva da una antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera.

Trascorsi gli anni dell'adolescenza a Traunstein, venne richiamato negli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale nei servizi ausiliari antiaerei.

Dal 1946 al 1951 - anno in cui, il 29 giugno, veniva ordinato sacerdote ed iniziava la sua attività di insegnamento - studiò filosofia e teologia nell'Università di Monaco e nella Scuola Superiore di Filosofia e Teologia di Frisinga. Del 1953 è la dissertazione "Popolo e casa di Dio nella Dottrina della Chiesa di Sant'Agostino", con la quale si addottorava in Teologia. Quattro anni dopo otteneva la libera docenza con un lavoro su "La Teologia della Storia di San Bonaventura".

Conseguito l'incarico di Dogmatica e Teologia fondamentale nella Scuola Superiore di Filosofia e Teologia di Frisinga, proseguì l'insegnamento a Bonn, dal 1959 al 1969, Münster, dal 1963 al 1966, e Tubinga, dal 1966 al 1969. In quest'ultimo anno divenne Professore Ordinario di Dogmatica e di storia dei dogmi nell'Università di Ratisbona e Vice-Presidente della stessa Università. Intanto già dal 1962 acquistava notorietà internazionale intervenendo, come consulente teologico dell'Arcivescovo di Colonia Cardinale Joseph Frings, al Concilio Vaticano II, al quale diede un notevole contributo.

Tra le sue numerose pubblicazioni un peso particolare occupano l'"Introduzione al Cristianesimo", raccolta di lezioni universitarie sulla professione di fede apostolica, pubblicata nel 1968, "Dogma e rivelazione", un'antologia di saggi, prediche e riflessioni dedicate alla pastorale, uscita nel 1973. Ampia risonanza ottenne pure la sua arringa pronunziata dinanzi all'Accademia cattolica bavarese sul tema: "Perché io sono ancora nella Chiesa?", nella quale affermava: "Solo nella Chiesa è possibile essere cristiani e non accanto alla Chiesa". Del 1985 è il volume "Rapporto sulla fede", del 1996 "Il sale della terra".

Il 24 marzo 1977 Paolo VI lo nominava Arcivescovo di München und Freising. Il 28 maggio successivo riceveva la Consacrazione Episcopale, primo sacerdote diocesano ad assumere dopo 80 anni il governo pastorale della grande Diocesi bavarese.

Creato Cardinale da Papa Paolo VI nel 1977, è stato Relatore alla V Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (1980), sul tema: "I compiti della famiglia cristiana nel mondo contemporaneo" e Presidente delegato della VI Assemblea sinodale (1983) su "Riconciliazione e penitenza nella missione della Chiesa".

Il 25 novembre 1981 è stato nominato da Giovanni Paolo II Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; Presidente della Pontificia Commissione Biblica e della Pontificia Commissione Teologia Internazionale.

Il 5 aprile 1993 è entrato a far parte dell'Ordine dei Cardinali Vescovi, del titolo della Chiesa Suburbicaria di Velletri-Segni.

Il 6 novembre 1998 è stato eletto Vice-Decano del Collegio Cardinalizio. Il 30 novembre 2002, il Santo Padre ne ha approvato l'elezione, fatta dai Cardinali dell'ordine dei Vescovi, a Decano del Collegio Cardinalizio.

È stato Presidente della Commissione per la Preparazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che dopo sei anni di lavoro (1986-1992) ha potuto presentare al Santo Padre il nuovo Catechismo.

Il 10 novembre 1999 è stato insignito della Laurea ad honorem in Giurisprudenza dalla Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA).

Dal 13 novembre 2000 è Accademico onorario della Pontificia Accademia delle Scienze.

Da Paolo VI creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 27 giugno 1977, già del Titolo di Santa Maria Consolatrice al Tiburtino, dei Titoli della Chiesa Suburbicaria di Velletri-Segni (5 aprile 1993) e della Chiesa Suburbicaria di Ostia (30 novembre 2002).

È stato Membro del Consiglio della II Sezione della Segreteria di Stato; delle Congregazioni per le Chiese Orientali, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, per i Vescovi, per l'Evangelizzazione dei Popoli, per l'Educazione Cattolica; del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani e delle Pontificie Commissioni per l'America Latina ed "Ecclesia Dei".
OP/BIO:BENEDETTO XVI/... VIS 050419 (690)

24 APRILE: MESSA INAUGURAZIONE PONTIFICATO BENEDETTO XVI

CITTA' DEL VATICANO, 19 APR. 2005 (VIS). Questa sera, avvenuta l'elezione del nuovo Pontefice, il Cardinale Joseph Ratzinger, che ha assunto il nome di Benedetto XVI, il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Dr. Joaquín Navarro-Valls, ha rilasciato ai giornalisti la seguente dichiarazione:

"Terminato il conclave, il Santo Padre Benedetto XVI ha deciso di cenare questa sera con tutti i cardinali nella 'Domus Sanctae Marthae', dove riposerà questa notte".

"Domani mattina, alle ore 9:00, il Papa presiederà la Concelebrazione Eucaristica con i Cardinali nella Cappella Sistina e terrà l'omelia, in lingua latina".

"La Messa per la solenne inaugurazione del Pontificato si celebrerà a San Pietro domenica 24 aprile, alle ore 10:00".
OP/.../NAVARRO-VALLS VIS 050419 (120)
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Dani Noris
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Messaggioda Dani Noris » mar apr 19, 2005 9:38 pm

anch'io partecipo alla gioia di tutta la Chiesa e ringrazio il Signore per questo nuovo Papa che già conosciamo, già stimiamo e già amiamo. E' così consolante e rassicurante.

roby noris
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omelia 24 aprile 2005

Messaggioda roby noris » dom apr 24, 2005 1:57 pm

dalle info del VIS

Omelia del Santo Padre Benedetto XVI per l'inizio ufficiale del Suo Ministero petrino

CITTA' DEL VATICANO, 24 APR. 2005 (VIS). Riportiamo di seguito il testo dell'omelia - pubblicata in lingua inglese, francese, spagnola, italiana e tedesca - che il Santo Padre Benedetto XVI ha tenuto in occasione della Santa Messa per l'inizio ufficiale del Suo Ministero petrino.

"Signori Cardinali, venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, distinte Autorità e Membri del Corpo diplomatico, carissimi Fratelli e Sorelle!".

"Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle litanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell'ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le abbiamo nuovamente cantate con l'invocazione: 'Tu illum adiuva' - sostieni il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto particolare ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II!".

"Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo - non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli - i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell'aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua".

"Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comunità dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui conosciamo i nomi".

"Noi tutti siamo la comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione".

"La Chiesa è viva - così saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine - quasi come un'onda che si espande - va a tutti gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti".

"Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l'assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi".

"Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un'immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio".

"Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica - magari in modo anche doloroso - e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d'agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un'immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L'umanità - noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l'umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi - Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l'un l'altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo".

"La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell'abbandono, della solitudine, dell'amore distrutto. Vi è il deserto dell'oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell'uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell'edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione".

"La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell'agnello ha ancora un altro aspetto. Nell'Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un'immagine del loro potere, un'immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi".

"Proprio così Egli si rivela come il vero pastore: 'Io sono il buon pastore¼ Io offro la mia vita per le pecore', dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che redime, ma l'amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell'umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall'impazienza degli uomini".

"Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. 'Pasci le mie pecore', dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici - in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge - voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri".

"Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l'insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna dell'anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: 'E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò' (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell'inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: 'Non temere! D'ora in poi sarai pescatore di uomini' (Lc 5, 1-11)".

"Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo - a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l'acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all'uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita".

"È proprio così - nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. È proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo".

"Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell'immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all'unità. 'Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch'esse io devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore' (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: 'sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò' (Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no - non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l'unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa' che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell'unità!".

"In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: 'Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!' Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell'arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell'uomo, alla sua dignità, all'edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani".

"Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui - paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell'angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest'amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest'amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest'amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo - e troverete la vera vita. Amen".
HML/INAUGURAZIONE PONTIFICATO/BENEDETTO XVI VIS 050424 (2780)

roby noris
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saluto a Benedetto XVI su Caritas Insieme

Messaggioda roby noris » ven mag 13, 2005 6:27 pm

Ecco alcuni pensieri per la prossima rivista Caritas Insieme sul Papa Benedetto XVI.


Da Caritas Insieme N.2 2005 (prossima uscita)

Habemus papam

Quando le TV del mondo hanno annunciato l’elezione di Benedetto XVI, ai milioni di soddisfatti, anzi entusiasti, mi sono unito anch’io. Ho sempre apprezzato questo collaboratore strettissimo di Papa Giovanni Paolo II, una colonna portante del suo papato. Lucidità e precisione tagliente di una mente brillante che ha sempre affermato verità scomode ad un mondo mediatizzato che per anni ha guardato con timore reverenziale a questo guardiano dell’ortodossia, ora diventato il Santo Padre. Chi meglio di lui avrebbe potuto prendere il testimone di un Papa che ha catalizzato un’attenzione senza precedenti ponendosi come interlocutore autorevole dei potenti della terra, commuovendo i più piccoli, i miseri che non hanno voce? Con uno sguardo laico, disincantato, un po’ irriverente, mi vien da dire che le sfide di una chiesa che con Giovanni Paolo II ha catalizzato come non mai nella storia l’interesse planetario, ma che misura l’invecchiamento dei suoi aderenti praticanti e lo svuotamento delle chiese, sono enormi e solo con una personalità straordinaria e geniale a capo, ha qualche chance di non diventare in qualche decennio una forza virtuale di cui il mondo parla molto ma che di fatto non ha più una presenza capillare fatta di comunità locali vive e vivaci. È vero che i guai maggiori sono in Europa e che l’America latina e le nuove comunità nei paesi in via di sviluppo sembrano essere una speranza per il futuro. Personalmente credo però che sia solo una questione di decalage sul calendario dello sviluppo economico e politico a far nascere speranze che verranno disattese quando anche questi paesi avranno percorso la strada che la vecchia Europa ha conosciuto un secolo prima coniugando grandi conquiste come benessere, democrazia e diritti umani, con grandi disastri sul piano del pensiero, dell’etica e della morale, manifestatisi nel relativismo, nella secolarizzazione, nel sovvertimento del valore della vita contrabbandando ad esempio come conquiste sociali e segni di libertà, la legalizzazione di aborto, eutanasia e manipolazioni genetiche, per citare solo alcuni pasticci giganteschi. Quindi per tornare soprattutto ai guai europei, per certi versi è quasi incredibile la sproporzione fra la presenza imponente della figura di Giovanni Paolo II che è entrato in dialogo e ha giudicato per anni in modo preciso, senza concessioni a nessuno, quanto avveniva nel mondo sul piano morale, sociale, economico e politico, e d’altra parte la presenza spesso scialba delle chiese locali che finiscono per assomigliare ad anacronistiche versioni irrilevanti di quello slancio, di quella carica che animava un vecchio Papa ammalato. Benedetto XVI da Cardinale ha sempre giudicato la realtà con altrettanta precisione e rigore perfettamente adeguato al ruolo che aveva da prefetto della congregazione per la dottrina della fede; e oggi con la lucidità con cui guarda al pensiero debole che caratterizza l’umanità del terzo millennio, credo sia la figura su cui non solo il mondo cattolico ma tutti gli “uomini di buona volontà” potrebbero scommettere per evitare non tanto un generico quanto astratto “male” ma la catastrofe del pensiero, tradotta poi in concretissime manifestazioni senza speranza per il futuro di tutta l’umanità.
È per chi avesse bisogno di conferme è appena uscita una pubblicazione eccezionale, “Etica, Religione e Stato liberale” (edizioni Morcelliana) in cui l’allora Cardinal Ratzinger conversa col filosofo Jürgen Habermas durante un’incontro tenutosi a Monaco nel gennaio 2004 sul rapporto fra etica, scienza, religione e ragione. Vi è un respiro straordinario in questa difficile e articolata riflessione che sembra aprire uno squarcio all’orizzonte in cui cogliere la bellezza esplodente e straripante di un pensiero intelligente.

roby noris
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Etica, Religione e stato liberale

Messaggioda roby noris » ven mag 13, 2005 6:36 pm

ecco il testo dell'allora Cardinal Ratzinger pubblicato da IL FOGLIO QUOTIDIANO il 6 maggio



IL DIRITTO PUO’ ESSERE STORTO
Quello che Ratzinger ritenne di dover dire ad Habermas nel gennaio 2004

ANNO X NUMERO 106 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 6 MAGGIO 2005

Arriva oggi in libreria “Etica, religione e Stato liberale” (Morcelliana, 64 pagine, 6 euro), traduzione italiana del dialogo tra il filosofo Jürgen Habermas e l’allora cardinale Joseph Ratzinger (Monaco, 19 gennaio 2004)
Riportiamo l’intervento del cardinale.



Ciò che tiene unito il mondo
Nell’accelerazione del ritmo degli sviluppi storici in cui ci troviamo emergono, a me sembra, soprattutto due fattori quale segno di uno sviluppo che prima si era avviato con lentezza: da una parte v’è il formarsi di una società mondiale, in cui le singole potenze politiche, economiche e culturali sono sempre più interdipendenti e, nei loro diversi ambiti vitali, sono in contatto e fusione reciproca. L’altro fattore è lo sviluppo delle possibilità di azione dell’uomo, del potere di fare e di distruggere, possibilità che fanno sì che la questione del controllo etico e giuridico del potere si ponga in maniera assai più grave rispetto a quanto finora eravamo abituati. Perciò diventa di massima urgenza il problema del modo in cui culture che vengono a contatto possano trovare fondamenti etici in grado di favorire la loro coesistenza ed edificare una forma comune di responsabilità giuridica, atta a contenere e ordinare il potere.
Che il progetto Weltethos (ethos mondiale) sostenuto da Hans Küng trovi una vasta eco, a ogni modo, indica che il problema è stato sollevato. E questo rimane vero anche quando si accetti l’acuta critica fatta da Robert Spaemann a questo progetto. Ai due fattori citati infatti se ne aggiunge un terzo: nel processo dell’incontro e della fusione delle culture in larga misura si sono infrante certezze, che finora avevano una funzione portante. Il problema di che cosa ora, soprattutto nel contesto dato, sia propriamente il bene e perché lo si debba incondizionatamente fare, anche persino a proprio danno, questo problema di fondo si presenta per lo più senza risposta.
Ora, a me pare evidente che la scienza come tale non possa generare dell’ethos, e che quindi una coscienza etica rinnovata non venga a costituirsi come prodotto di dibattiti scientifici. D’altra parte è anche pur sempre incontestabile che il mutamento fondamentale dell’immagine del mondo e dell’uomo, il quale è risultato dal crescere delle conoscenze scientifiche, ha contribuito in modo essenziale al crollo di antiche certezze morali. Pertanto v’è ora realmente una responsabilità della scienza per l’uomo come uomo, e particolarmente una responsabilità della filosofia d’accompagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze, di esaminare criticamente deduzioni precipitose e certezze apparenti su questioni come: che cosa sia l’uomo, donde venga e per quale fine esista, o, per usare altre parole, di sceverare l’elemento non scientifico dai risultati scientifici con cui spesso è frammisto, mantenendo così aperto lo sguardo sulla totalità, sulle ulteriori dimensioni della realtà costituita dall’essere uomo, della quale la scienza può mostrare sempre unicamente aspetti parziali.

Potere e diritto
In concreto, è compito della politica sottomettere il potere al criterio del diritto e in tal modo ordinarne l’uso sensato. Non è il diritto del più forte a dover valere, ma la forza del diritto. Il potere entro l’ordine e al servizio del diritto è il polo opposto alla violenza, intesa come il potere privo di diritto e ad esso contrario. Di conseguenza, per ogni società è importante superare il sospetto sul diritto e i suoi ordinamenti, poiché solo così si può bandire l’arbitrio e vivere la libertà in quanto bene condiviso. Il sospetto nei confronti del diritto, la rivolta contro di esso sorgeranno sempre quando il diritto stesso non apparirà più come espressione di una giustizia che sia al servizio di tutti, ma come il prodotto di un arbitrio, di una pretesa di essere nel diritto solo perché si detiene il potere su di esso.
Il compito di sottomettere il potere al criterio del diritto rimanda quindi ad un altro problema: come nasce il diritto e come dev’essere strutturato, perché sia veicolo della giustizia e non privilegio di coloro che hanno il potere di stabilirlo? Da una parte si pone la questione del formarsi del diritto, ma dall’altra anche quello dei suoi propri criteri intrinseci. Che il diritto non debba essere strumento di potere nelle mani di pochi, ma espressione dell’interesse comune di tutti, è un problema che appare, comunque in primo luogo, risolto mediante gli strumenti della formazione democratica della volontà [del popolo], poiché in essa tutti cooperano al costituirsi del diritto e quindi esso è diritto di tutti e può e deve essere rispettato. Di fatto la garanzia della cooperazione comune allo strutturarsi del diritto e all’amministrazione giusta del potere è il motivo essenziale, consente di definire la democrazia come forma più adeguata di ordinamento politico.
Tuttavia, così mi pare, rimane ancora un problema. Poiché difficilmente si dà unanimità tra uomini, alla formazione democratica della volontà non resta che utilizzare, quali strumenti indispensabili, da un lato la delega, dall’altro la decisione a maggioranza, nella quale di volta in volta, secondo l’importanza della questione da decidere, possono essere richieste maggioranze più o meno ampie. Ma anche le maggioranze possono essere cieche o ingiuste. La storia lo mostra più che ampiamente. Quando una maggioranza, per grande che sia, schiaccia con leggi oppressive una minoranza, per esempio religiosa o di razza, si può parlare ancora di giustizia, di diritto in assoluto?
Perciò il principio di maggioranza lascia ancor sempre aperta la questione dei fondamenti etici del diritto, ossia la questione che porta a chiederci se non esista qualcosa che non può mai divenire diritto, qualcosa che rimane sempre in sé ingiustizia, o negazione del diritto, e, viceversa, se non esista anche quanto, per sua essenza, è diritto immutabile, precedente a ogni decisione di maggioranza e che da essa deve venir rispettato.
L’epoca moderna ha formulato un patrimonio di questi elementi normativi nelle diverse dichiarazioni dei diritti dell’uomo e l’ha sottratto al gioco delle maggioranze. Ora, nella coscienza attuale, ci si può accontentare dell’evidenza intrinseca di questi valori. Ma anche il trattenersi dal mettere in questione tale evidenza ha carattere filosofico. Esistono quindi valori che sussistono in se stessi, che conseguono dall’essenza del l’uomo e perciò sono intangibili in rapporto a tutti i soggetti che hanno questa essenza. Dovremo più avanti tornare ancora un’altra volta sulla portata di tale idea, tanto più che questa evidenza oggi non è affatto riconosciuta in tutte le culture. L’islam ha definito un catalogo proprio dei diritti dell’uomo, che diverge da quello occidentale. La Cina è bensì oggi determinata da una forma di cultura sorta in occidente, il marxismo, ma, per quanto mi risulta, pone in verità l’interrogativo se nel caso dei diritti dell’uomo non si tratti di un’invenzione tipicamente occidentale, dietro la cui facciata si deve indagare.

Nuove forme del potere e nuovi problemi
Quando si tratta del rapporto tra il potere e il diritto e delle fonti del diritto, bisogna prendere in considerazione più da vicino anche il fenomeno del potere stesso. Non vorrei tentare di definire l’essenza del potere come tale, ma delineare le sfide che risultano dalle nuove forme di potere, le quali si sono sviluppate nell’ultimo cinquantennio. Nel primo periodo dopo la seconda guerra mondiale dominava il terrore di fronte al nuovo potere di distruzione, che s’era accresciuto per l’uomo con l’invenzione della bomba atomica. L’uomo si vide improvvisamente in grado di distruggere se stesso e la terra. Si sollevò la questione: quali meccanismi politici sono necessari per evitare questa distruzione? Come si possono trovare e rendere efficaci tali meccanismi? Come si possono mobilitare delle energie etiche, le quali strutturino tali forme politiche e conferiscano loro efficacia? Di fatto allora e, per un lungo periodo, furono la concorrenza dei blocchi di potenze contrapposti tra loro e il timore di innescare, con la distruzione dell’altro, la propria, a salvaguardarci dai terrori della guerra atomica. La delimitazione reciproca della potenza e il timore per la propria sopravvivenza si dimostrarono le forze salvatrici.
Ora non ci impaurisce più in questo modo il timore per la guerra di grandi proporzioni, quanto quello per il terrorismo onnipresente, che può colpire e rendersi operante in ogni singolo luogo. L’umanità, questo vediamo noi ora, non ha bisogno affatto della grande guerra per rendere invivibile il mondo. Le potenze anonime del terrorismo, che può essere presente ovunque, sono sufficientemente forti per perseguitare tutti fin nella vita quotidiana, e a questo riguardo rimane lo spettro che elementi criminali si possano procurare l’accesso ai grandi potenziali di distruzione, gettando così il mondo nel caos, al di fuori dell’ordine della politica. Pertanto, la questione del diritto e dell’ethos si è spostata: di quali fonti si alimenta il terrorismo? Come si può riuscire a prevenire dall’interno questo nuovo male dell’umanità? Al riguardo, incute paura il fatto che il terrorismo, almeno in parte, si legittimi con ragioni morali. I messaggi di Osama Bin Laden presentano il terrorismo come la risposta dei popoli privi di potere e oppressi dall’orgoglio dei potenti, come la giusta punizione della loro arroganza e del loro dispotismo e crudeltà blasfemi. Per le persone che si trovano in determinate situazioni sociali e politiche questo genere di motivazioni è manifestamente convincente. In parte il comportamento terroristico viene presentato come difesa della tradizione religiosa contro l’empietà della società occidentale.
A questo punto sorge un interrogativo, sul quale dobbiamo soffermarci: se il terrorismo si nutre anche di fanatismo religioso – ed effettivamente se ne alimenta –, allora la religione è una potenza risanatrice e salvatrice, oppure è una potenza arcaica e pericolosa, che costruisce falsi universalismi e per tal via seduce a praticare l’intolleranza e il terrorismo? La religione non deve qui esser posta sotto la tutela della ragione e accuratamente delimitata? E di conseguenza, chi lo può fare? In qual modo lo si attua? Ma rimane la questione generale: l’eliminazione graduale della religione, il suo superamento, dev’essere considerato come progresso necessario dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della tolleranza universale, o no?
Nel frattempo è venuta alla ribalta un’altra forma di potere, che in un primo momento sembra benefica e degna di tutto il plauso, ma in realtà può divenire una nuova fonte di minaccia per l’uomo. Egli ora è in grado di “fare” esseri umani, di produrli per così dire in provetta. L’uomo diventa il prodotto e con questo si altera in modo fondamentale il suo rapporto con se stesso. Egli non è più un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto suo proprio. L’uomo si è calato nell’antro da cui scaturisce il potere, presso la fonte prima della sua propria esistenza. La tentazione di costruire solo ora l’uomo giusto, la tentazione di far esperimenti con l’uomo, la tentazione di considerare l’uomo come rifiuto, immondizia, non è un’idea cervellotica di moralisti nemici del progresso.
Se prima ci incalzava inquietante il problema se la religione sia propriamente una forza morale positiva, ora deve necessariamente emergere il dubbio sull’affidabilità della ragione. In ultima analisi, anche la bomba atomica è un prodotto della ragione, l’allevamento metodico e la selezione degli uomini sono stati escogitati dalla ragione. Ora, quindi, non dovrebbe essere messa sotto controllo la ragione? Ma da parte di chi o mediante che cosa? O forse ragione e religione dovrebbero delimitarsi reciprocamente e di volta in volta indicarsi i confini e portarsi sulla strada positiva? A questo punto si solleva di nuovo il problema del modo in cui in una società mondiale, con i suoi meccanismi del potere e con le sue energie non domate, così come con le diverse visioni di quel che è diritto e morale, si possa trovare un’evidenza etica efficace, che abbia sufficiente forza motivante e di affermazione per rispondere alle sfide suaccennate e per aiutare a sostenerle.

Presupposti del diritto: diritto/natura/ragione
Anzitutto è consigliabile rivolgere lo sguardo a situazioni storiche paragonabili alla nostra, nella misura in cui v’è qualcosa di paragonabile. Vale almeno la pena di osservare brevissimamente che la Grecia ebbe il suo illuminismo, che il diritto fondato sugli dèi perse la sua evidenza e si fu necessitati a ricercare motivi del diritto più profondi. Così affiorò l’idea: di contro al diritto positivo, che può essere ingiustizia, deve pur esserci un diritto che derivi dalla natura, dall’essere stesso dell’uomo. Questo diritto si deve necessariamente trovare, e allora esso costituisce il correttivo nei confronti del diritto positivo.
Ci risulta più facile guardare alla doppia frattura intervenuta per la coscienza europea all’inizio dell’epoca moderna, che costrinse a riflettere nuovamente sui fondamenti, sul contenuto e la fonte del diritto. Qui si pone dapprima l’uscita dai confini del mondo europeo e cristiano, che si attua con la scoperta dell’America. Ora si incontrano popoli che non appartengono alla compagine organica della fede e del diritto, la quale fino allora era la fonte del diritto per tutti e gli conferiva la sua struttura. Non v’è alcuna comunanza di diritto con questi popoli. Ma allora sono privi di un diritto, come a quel tempo molti affermarono e come fu ampiamente tradotto in pratica, o v’è un diritto che travalica tutti i sistemi giuridici, lega e rimanda gli uomini in quanto tali alla loro reciprocità? Francisco de Vitoria in questa situazione ha sviluppato l’idea dello ius gentium, del «diritto dei popoli», che era già nell’aria; in questo caso alla parola gentes si associa in trasparenza il significato di pagani, non cristiani. Si intende dunque il diritto che è previo alla struttura giuridica cristiana e deve ordinare una giusta coesistenza di tutti i popoli.
La seconda rottura nel mondo cristiano si compì all’interno della cristianità stessa a causa dello scisma nella fede, attraverso il quale la comunità dei cristiani fu ripartita in comunità che si contrapponevano – in parte ostilmente. Si deve sviluppare un’altra volta un diritto comune, almeno un minimo di diritto precedente il dogma, un diritto i cui fondamenti ora non si devono trovare più necessariamente nella fede, ma nella natura, nella ragione dell’uomo. Hugo Grotius, Samuel von Pufendorf e altri hanno sviluppato l’idea del diritto naturale come diritto razionale che, al di là dei confini della fede, è messo in essere dalla ragione in quanto essa è l’organo della formazione del diritto comune.
Il diritto naturale – particolarmente nella Chiesa cattolica – è rimasto il modello di argomentazione, con cui essa si appella alla ragione comune nei dialoghi con la società laica e con altre comunità di fede e cerca i fondamenti a favore di un’intesa sui principi etici del diritto in una società pluralistica “secolare”. Ma questo strumento purtroppo risulta spuntato, e io non vorrei quindi far leva su di esso in questo dialogo. L’idea del diritto naturale presupponeva un concetto di natura, in cui natura e ragione fanno presa l’una nell’altra, la natura stessa è razionale. Questa visione della natura si è spezzata con la vittoria della teoria dell’evoluzione. La natura come tale, secondo essa, non è razionale, anche se in essa vi sono modi di operare razionali: questa è la diagnosi che da quella prospettiva ci viene posta e che oggi in larga misura sembra incontrovertibile. Delle diverse dimensioni del concetto di natura, che erano proprie del diritto naturale di un tempo, è rimasta così solo quella che Ulpiano (primi anni del III secolo d.C.) colse nella celebre frase: «Ius naturae est, quod natura omnia animalia docet». Ma ciò appunto non basta a rispondere ai nostri interrogativi, in cui non si tratta precisamente di quanto concerne tutti gli animalia, ma di compiti specificamente umani, che la ragione dell’uomo ha creati e a cui non si può rispondere senza la ragione.
Come ultimo elemento del diritto naturale, che nella dimensione più profonda voleva essere un diritto razionale, comunque, nell’epoca moderna, sono rimasti i diritti umani. Essi non si possono comprendere senza il presupposto che l’uomo come uomo, semplicemente a motivo della sua appartenenza alla specie uomo, è soggetto di diritto, che il suo stesso essere porta in sé valori e norme, i quali si devono trovare, ma non inventare. Forse oggi la dottrina dei diritti umani dovrebbe essere integrata con una dottrina dei doveri umani e dei limiti dell’uomo, e ciò potrebbe ora comunque aiutare a rinnovare il problema se non possa darsi una ragione della natura e così un diritto naturale per l’uomo e per il suo dimorare nel mondo. Un dialogo di tal genere oggi dovrebbe essere esposto e impostato a livello interculturale. Per i cristiani esso avrebbe a che fare con la creazione e col Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe a questo il concetto del dharma, dell’intrinseca struttura dell’essere secondo leggi, nella tradizione cinese l’idea degli ordinamenti del Cielo (Tien).

L’interculturalità e le sue conseguenze
Prima di giungere a delle conclusioni, vorrei ampliare ancora un po’ la traccia appena indicata. L’interculturalità mi pare oggi costituisca una dimensione indispensabile per la discussione intorno alle questioni fondamentali sull’essere uomo, discussione che non può essere condotta né solo all’interno del cristianesimo né solo nell’ambito della tradizione occidentale della ragione. Entrambi considerano se stessi, secondo la loro autocomprensione, come universali e de iure possono anche esserlo. De facto devono per necessità riconoscere d’essere accettati solo in parti dell’umanità e di essere anche comprensibili soltanto in parti di essa. Il numero delle culture concorrenti è però molto più limitato di quanto possa apparire a prima vista.
Soprattutto è importante il fatto che all’interno delle aree culturali non esista più una unitarietà, ma che esse siano caratterizzate tutte da tensioni che incidono profondamente nella sfera della loro propria tradizione culturale. In occidente questo è completamente palese. Anche se la cultura “secolare” di una razionalità rigorosa, di cui ci ha dato un’immagine impressionante Habermas, è largamente dominante e crede d’essere il fattore che lega tutto, la comprensione cristiana della realtà è, come sempre, una forza operante. I due poli si trovano in diverse posizioni di vicinanza o di tensione, in atteggiamento di disponibilità ad apprendere reciprocamente o di più o meno deciso rifiuto.
Anche l’area culturale islamica è caratterizzata da analoghe tensioni: dall’assolutismo fanatico di un Osama Bin Laden fino agli atteggiamenti che sono aperti a una razionalità tollerante, si dispiega un ampio arco. Il terzo grande ambito culturale, la cultura indiana, o, meglio, le aree culturali dell’hinduismo e del buddhismo, a loro volta sono improntate a tensioni somiglianti, anche se, a ogni modo per il nostro sguardo, hanno un rilievo meno drammatico. Pure queste culture si vedono esposte tanto all’esigenza della razionalità occidentale, quanto agli interrogativi della fede cristiana, entrambi presenti; esse assimilano in diversi modi sia l’una, sia l’altra e tuttavia, ciò facendo, cercano di salvaguardare la propria identità. Le culture tribali dell’Africa e le culture tribali dell’America Meridionale, ridestate a nuova vita da certe teologie cristiane, completano il quadro. Esse sembrano in vasta proporzione mettere in questione la razionalità occidentale, ma anche la rivendicazione universalista della rivelazione cristiana.
Che cosa segue da tutto ciò? Anzitutto, in primo luogo, così mi pare, la non universalità di fatto delle due grandi culture dell’occidente, quella della fede cristiana come quella della razionalità “secolare”, per quanto ambedue nel mondo intero e in tutte le culture contribuiscano, ciascuna a suo modo, a dar l’impronta. Pertanto l’interrogativo del collega di Teheran, citato da Habermas, mi sembra sia pur di qualche peso, vale a dire la questione se, in termini di comparazione delle culture e di sociologia delle religioni, la secolarizzazione europea non sia l’anomalia che richieda una correzione. Non ridurrei incondizionatamente e, in alcun caso, necessariamente questo problema alla situazione emotiva di Carl Schmitt, Martin Heidegger e Leo Strauss, ossia, per così dire, a una situazione europea stanca di razionalità. E’ un dato di fatto, a ogni modo, che la nostra razionalità “secolare”, per quanto chiara appaia alla nostra ragione formata secondo modalità occidentali, non è evidente a ogni ratio; è un dato di fatto che essa, nel suo sforzo di rendersi evidente come razionalità, urta in certi limiti. La sua evidenza è attualmente legata a determinati contesti culturali, e deve per necessità riconoscere di non essere, come tale, riproducibile (nachvollziehbar) nell’intera umanità e quindi nemmeno operativa in toto. In altre parole, non esiste una formula per tutto il mondo, una formula, razionale, etica o religiosa che sia, sulla quale tutti siano concordi e che possa sostenere la totalità. Ad ogni modo, al presente una tale formula non la si può raggiungere. Per conseguenza anche il cosiddetto ethos del mondo rimane un’astrazione.

Conclusioni
Che cosa si deve fare dunque? Riguardo alle conseguenze pratiche, sono in forte accordo con quanto ha esposto Habermas su una società “postsecolare”, sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione da entrambi i lati. Vorrei sintetizzare la mia visione personale in due riflessioni e concludere in questo modo.
1. Noi avevamo visto che vi sono nella religione patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione, per così dire, come organo di controllo, movendo dal quale la religione deve necessariamente farsi purificare e ordinare continuamente, il che del resto era anche il pensiero dei Padri della Chiesa. Ma nelle nostre riflessioni si è anche mostrato che vi sono pure delle patologie della ragione (cosa di cui oggi in generale non è altrettanto consapevole l’umanità), una hybris della ragione, che non è meno pericolosa, ma ancora più minacciosa se vista nella sua potenziale efficienza: bomba atomica, uomo come prodotto. Per questo, a sua volta, anche la ragione dev’essere ammonita sui suoi limiti ed esortata a imparare una disponibilità all’ascolto verso le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Se si emancipa completamente, e abbandona questa disponibilità di apprendere, questa correlatività, essa diviene deleteria.
Recentemente Kurt Hübner ha formulato un’esigenza simile e ha detto che, nel caso di tale tesi, non si tratta direttamente di un “ritorno alla fede”, ma del fatto che “ci si libera dall’abbaglio epocale secondo cui essa [la fede] non ha più niente da dire all’uomo d’oggi in quanto contraddice la sua idea umanistica di ragione, illuminismo e libertà”. In modo corrispondente io parlerei di una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra.
2. Questa regola fondamentale deve allora essere concretizzata nel contesto interculturale del nostro presente. Senza dubbio i due partner principali in questa correlatività sono la fede cristiana e la razionalità “secolare” occidentale. Questo può essere affermato senza cadere in eurocentrismo errato. Entrambi determinano la situazione mondiale in una misura quale nessuna altra delle forze culturali possiede. Il che non significa sia lecito accantonare le altre culture come quantité négligeable: sarebbe il segno di una hybris occidentale, che pagheremmo a caro prezzo come in parte già succede. E’ importante
per le due grandi componenti della cultura occidentale farsi coinvolgere in un ascolto, in una vera correlatività anche con queste culture. E’ importante coinvolgerle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui aprano se stesse alla complementarità essenziale tra ragione e fede, cosicché possa crescere un processo di purificazione universale, in cui in ultima istanza i valori e le norme essenziali in qualche modo conosciuti o presagiti da tutti gli uomini possano conseguire nuova forza d’illuminazione, cosicché possa ritornare ad avere forza operante quanto tiene unito il mondo.

Joseph Ratzinger

roby noris
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B16 e l'Europa

Messaggioda roby noris » mer ago 17, 2005 4:41 pm

B16 e l'Europa

In questi giorni di GMG a Colonia val la pena di ricordare una pubblicazione recentissima di B16 (alle GMG passate c'erano i cartelli con GPII e ora B16 per Papa Benedetto XVI) sull'Europa che vale la pena di leggere (o anche di ascoltare se avete la fortuna di avere il libro in MP3):

Joseph Ratzinger
L'Europa di Benedetto
NELLA CRISI DELLE CULTURE

Introduzione di Marcello Pera
Edizioni Cantagalli, Maggio 2005

È la pubblicazione di tre interventi dell'allora Card.Ratzinger:
1. 1992 a Bassano del Grappa in occasione del premio "Scuola e cultura cattolica"
2. 1997 al Convegno del Movimento per la Vita
3. 1 aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, nel monastero benedettino di Santa Scolastica, a Subiaco, dove ricevette il premio "S.Benedetto per l'Europa" assegnato dalla fondazione sublacense Vita e Famiglia
A collegare i tre interventi è la crisi delle culture e la figura di San Benedetto da Norcia

Eccovi un assaggio con due stralci del primo intervento:

L'affermazione che la menzione delle radici cristiane dell'Europa ferisce i sentimenti dei molti non-cristiani che ci sono in Europa, è poco convincente, visto che si tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può seriamente negare. Naturalmente questo cenno storico contiene anche un riferimento al presente, dal momento che, con la menzione delle radici, si indicano le fonti residue di orientamento morale, e cioè un fattore d'identità di questa formazione che è l'Europa. Chi verrebbe offeso? L'identità di chi viene minacciata? I musulmani, che a tale riguardo spesso e volentieri vengono tirati in ballo, non si sentono minacciati dalle nostre basi morali cristiane, ma dal cinismo di una cultura secolarizzata che nega le proprie basi. E anche i nostri concittadini ebrei non vengono offesi dal riferimento alle radici cristiane dell'Europa, in quanto queste radici risalgono fino al monte Sinai: portano l'impronta della voce che si fece sentire sul monte di Dio e ci uniscono nei grandi orientamenti fondamentali che il decalogo ha donato all'umanità. Lo stesso vale per il riferimento a Dio: non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio.
Le motivazioni per questo duplice "no " sono più profonde di quel che lasciano pensare le motivazioni avanzate. Presuppongono l'idea che soltanto la cultura illuminista
radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per l'identità europea. Accanto ad essa possono dunque coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi diritti, a condizione che e nella misura in cui rispettino i criteri della cultura illuminista e si subordinino ad essa. Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta in dubbio proprio questo canone; l'ordinamento democratico dello Stato, e cioè il controllo parlamentare sugli organismi statali; la libera formazione di partiti; l'indipendenza della magistratura; e infine la tutela dei diritti dell'uomo ed il divieto di discriminazioni. Qui il canone è ancora in via di formazione, visto che ci sono anche diritti dell'uomo contrastanti, come per esempio nel caso del contrasto tra la voglia di libertà della donna e il diritto alla vita del nascituro. Il
concetto di discriminazione viene sempre più allargato, e così il divieto di discriminazione può trasformarsi sempre di più in una limitazione della libertà di opinione e della libertà religiosa. Ben presto non si potrà più affermare che l'omosessualità, come insegna la Chiesa cattolica, costituisce un obiettivo disordine nello strutturarsi dell'esistenza umana. Ed il fatto che la Chiesa è convinta di non avere il diritto di dare l'ordinazione sacerdotale alle donne viene considerato, da alcuni, fin d'ora inconciliabile con lo spirito della Costituzione europea. È evidente che questo canone della cultura illuminista, tutt'altro che definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani, non vogliamo e non possiamo fare a meno; ma è altrettanto evidente che la concezione mal definita o non definita affatto di libertà, che sta alla base di questa cultura, inevitabilmente comporta contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche ad immaginarci. Una confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà.

[……….]


III
IL SIGNIFICATO PERMANENTE DELLA FEDE CRISTIANA

Questo è un semplice rifiuto dell'illuminismo e della modernità? Assolutamente no . Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del Logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell'illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l'unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell'ordinamento statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. In questo senso l'illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell'ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato. Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità - anche della nostra fede - sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. È stato ed è merito dell'illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti.
Con tutto ciò, bisogna che tutte e due le parti riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi. Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del Logos. Esso è fede nel Creator Spiritus, nello Spirito creatore, dal quale proviene tutto il reale. Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in quanto il problema è se il mondo provenga dall'irrazionale, e la ragione non sia dunque altro che un "sottoprodotto", magari pure dannoso, del suo sviluppo, o se il mondo provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua meta. La fede cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di vista puramente filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante sia la prima tesi ad essere considerata oggi da tanti la sola "razionale" e moderna. Ma una ragione scaturita dall'irrazionale e che è, alla fin fine, essa stessa irrazionale, non costituisce una soluzione ai nostri problemi. Soltanto la ragione creatrice, e che nel Dio crocifisso si è manifestata come amore, può veramente mostrarci la via. Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restare fedeli a questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal Logos, dalla Ragione Creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale. Ma a questo punto vorrei, nella mia qualità di credente, fare una proposta ai laici. Nell'epoca dell'illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell'immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un'evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell'umanità. A quell'epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così. La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita. Neppure lo sforzo, davvero grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa. Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell'ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l'immortalità come postulati della ragione pratica, senza cui, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale. La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa aver ragione? Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all'estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull'orlo dell'abisso, verso l'accantonamento totale dell'uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l'assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell'accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono.

roby noris
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Messaggioda roby noris » ven ago 26, 2005 10:22 am

Dall'agenzia MISNA www.misna.org (interessante per lo sguardo al mondo che propone)
il messaggio di Benedetto XVI dopo la GMG i Colonia.



“Cari fratelli e sorelle!
Come l’amato Giovanni Paolo II soleva fare dopo ogni pellegrinaggio apostolico, anch’io vorrei quest’oggi, insieme con voi, ripercorrere i giorni trascorsi a Colonia in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù. La Provvidenza divina ha voluto che il mio primo viaggio pastorale fuori d’Italia avesse come meta proprio il mio Paese di origine e avvenisse in occasione del grande incontro dei giovani del mondo, a vent’anni dall’istituzione della Giornata Mondiale della Gioventù, voluta con intuizione profetica dall’indimenticabile mio Predecessore. Dopo il mio ritorno, dal profondo del mio cuore rendo grazie a Dio per il dono di questo pellegrinaggio, del quale conserverò un caro ricordo. Abbiamo tutti sentito che era un dono di Dio. Certo, molti hanno collaborato, ma alla fine la grazia di questo incontro era un dono dall’Alto, dal Signore. La mia gratitudine si rivolge al tempo stesso a tutti coloro che con impegno ed amore hanno preparato e organizzato questo incontro in ogni sua fase: in primo luogo, all’Arcivescovo di Colonia, il Card. Joachim Meisner, al Card. Karl Lehmann, Presidente della Conferenza Episcopale, e ai Vescovi della Germania, con i quali mi sono intrattenuto proprio al termine della mia visita. Vorrei poi ringraziare nuovamente le Autorità, le organizzazioni e i volontari che hanno offerto il loro contributo. Sono grato pure alle persone e alle comunità che, in ogni parte del mondo, lo hanno sostenuto con la preghiera e agli ammalati, che hanno offerto le loro sofferenze per la riuscita spirituale di quest’importante appuntamento.
L’abbraccio ideale con i giovani partecipanti alla Giornata Mondiale della Gioventù è cominciato sin dal mio arrivo all’aeroporto di Colonia/Bonn ed è andato facendosi sempre più carico di emozioni percorrendo il Reno dal molo di Rodenkirchenerbrucke sino a Colonia scortati da altre cinque imbarcazioni rappresentanti i cinque continenti. Suggestiva è stata poi la sosta di fronte alla banchina del Poller Rheinwiesen dove attendevano già migliaia e migliaia di giovani con i quali ho avuto il primo incontro ufficiale, chiamato opportunamente "festa di accoglienza" e che aveva come motto le parole dei Magi "Dov’è il re dei Giudei che è nato?" (Mt 2, 2a). Sono stati proprio i Magi le "guide" per quei giovani pellegrini verso Cristo. Quanto è significativo che tutto questo sia avvenuto mentre ci avviamo verso la conclusione dell’Anno Eucaristico voluto da Giovanni Paolo II! "Siamo venuti per adorarlo": il tema dell’Incontro ha invitato tutti a seguire idealmente i Magi, e a compiere insieme a loro un interiore viaggio di conversione verso l’Emanuele, il Dio con noi, per conoscerlo, incontrarlo, adorarlo, e, dopo averlo incontrato e adorato, ripartire poi recando nell’animo, nel nostro intimo, la sua luce e la sua gioia.
A Colonia i giovani hanno avuto modo a più riprese di approfondire queste tematiche spirituali e si sono sentiti sospinti dallo Spirito Santo ad essere testimoni di Cristo, che nell’Eucaristia ha promesso di restare realmente presente tra noi sino alla fine del mondo. Ripenso ai vari momenti che ho avuto la gioia di condividere con loro, specialmente alla veglia di sabato sera e alla celebrazione conclusiva di domenica. A queste suggestive manifestazioni di fede si sono uniti milioni di altri giovani da ogni angolo della terra, grazie ai provvidenziali collegamenti radio televisivi. Ma vorrei qui rievocare un incontro singolare, quello con i seminaristi, giovani chiamati a una più radicale sequela di Cristo, Maestro e Pastore. Avevo voluto che ci fosse un momento specifico dedicato a loro, anche per mettere in risalto la dimensione vocazionale tipica delle Giornate Mondiali della Gioventù. Non poche vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata sono sbocciate, in questi venti anni, proprio durante le Giornate Mondiali della Gioventù, occasioni privilegiate nelle quali lo Spirito Santo fa sentire la sua chiamata.
Nel contesto ricco di speranza delle Giornate di Colonia, si colloca molto bene l’incontro ecumenico con i rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali. Il ruolo della Germania nel dialogo ecumenico è importante sia per la triste storia delle divisioni che per la parte significativa svolta nel cammino di riconciliazione. Auspico che il dialogo, quale scambio reciproco di doni, e non solo di parole, contribuisca inoltre a far crescere e maturare quella "sinfonia" ordinata ed armonica che è l’unità cattolica. In tale prospettiva, le Giornate Mondiali della Gioventù rappresentano un valido "laboratorio" ecumenico. E come non rivivere con emozione la visita alla Sinagoga di Colonia, dove ha sede la più antica Comunità ebraica in Germania? Con i fratelli ebrei ho fatto memoria della Shoà, e del 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti. Quest’anno ricorre, inoltre, il 40° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, che ha inaugurato una nuova stagione di dialogo e di solidarietà spirituale tra ebrei e cristiani, nonché di stima per le altre grandi tradizioni religiose. Tra queste, un posto particolare occupa l’Islam, i cui seguaci adorano l’unico Dio e si rifanno volentieri al patriarca Abramo. Per tale ragione ho voluto incontrare i rappresentanti di alcune Comunità musulmane, ai quali ho manifestato le speranze e le preoccupazioni del difficile momento storico che stiamo vivendo, auspicando che siano estirpati il fanatismo e la violenza e che insieme si possa collaborare nel difendere sempre la dignità della persona umana e tutelare i suoi diritti fondamentali.
Cari fratelli e sorelle, dal cuore della "vecchia" Europa, che nel secolo scorso, purtroppo, ha conosciuto orrendi conflitti e regimi disumani, i giovani hanno rilanciato all’umanità del nostro tempo il messaggio della speranza che non delude, perché fondata sulla Parola di Dio fattasi carne in Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza. A Colonia i giovani hanno incontrato e adorato l’Emanuele , il Dio-con-noi, nel mistero dell’Eucaristia ed hanno meglio compreso, che la Chiesa è la grande famiglia mediante la quale Dio forma uno spazio di comunione e di unità tra ogni continente, cultura e razza, una -per così dire- "grande comitiva di pellegrini" guidati da Cristo, stella radiosa che illumina la storia. Gesù si fa nostro compagno di viaggio nell’Eucaristia, e nell’Eucaristia – così dicevo nell’omelia della celebrazione conclusiva mutuando dalla fisica un’immagine ben nota - porta "la fissione nucleare" nel cuore più nascosto dell’essere. Solo quest’intima esplosione del bene che vince il male può dar vita alle altre trasformazioni necessarie per cambiare il mondo. Preghiamo quindi perché i giovani da Colonia rechino con sé la luce di Cristo, che è verità e amore e la diffondano dappertutto. Potremo così assistere ad una primavera di speranza in Germania, in Europa e nel mondo intero”.

Paola
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Benedetto XVI e la fede fai da te

Messaggioda Paola » lun mar 27, 2006 3:44 pm

come è noto, alla giornata mondiale di Colonia, papa Benedetto XVI ha invitato i giovani - ma credo che oggi il suo invito è valido per le donne e gli uomini di tutte le età - a non "costruirsi" una fede fai da te. Personalmente, credo che il Pontefice ha messo il dito nella piaga più dolente della comunità cristiana perché "la voglia" a elaborare una propria fede è molto forte, e questo, a mio avviso, non è dovuto al malo modo di interrogare le Sacre Scritture o di studiare discipline affini alla teologia, ma piuttosto al fatto che molti si trovano a disagio nella Chiesa cattolica. Molti si allontanano dal cattolicesimo perché assistono a grandi e piccoli scandali. A grandi scandali, come quelli legati alla pedofilia che coinvolgono ecclesiastici, ai piccoli scandali quando di fronte a certe domande poste a preti si hanno risposte che "non stanno né in terra né in cielo". Quante persone, mi domando, si sono allontanate dalla propria comunità e non riescono a frequentare una celebrazione eucaristica perché hanno a che fare con preti che "non hanno nulla da dire"? E' facile dire che la Chiesa è fatti di preti che sono uomini: frasi fatte che hanno il tempo che trovano. Dai nostri preti dobbiamo non solo "pretendere" una profonda vita spirituale, ma anche una buona e solida formazione culturale. E' in questo modo, secondo me, che si potrà porre un argine alla dilagante "fede fai da te". Mi auguro che papa Benedetto XVI continui a tenere presente questo male della nostra Chiesa e che torni ad affrontarla.
Paola


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