Damiano Tamagni

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roby noris
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Damiano Tamagni

Messaggioda roby noris » mer feb 06, 2008 5:12 pm

Ricordando Damiano Tamagni

Di fronte allo sconcerto per il dramma che ha colpito il Ticino nel periodo di carnevale con la morte di Damiano Tamagni a Locarno, la direzione e gli operatori di Caritas Ticino sono vicini alla famiglia del giovane ventiduenne.
Caritas Ticino esprime il desiderio che la commozione di questo momento durissimo sia la spinta per un ricordo durevole di questa tragedia quale monito per tutta la comunità. Un invito ad approfondire sia le responsabilità, sia le potenzialità positive, di fronte alla violenza come forma di comunicazione di una società che rischia di andare alla deriva.
Per questo il forum di Caritas Ticino ospita alcune riflessioni significative offerte in questi giorni di sofferenza dai genitori di Damiano, dal nostro Vescovo e dal direttore del Giornale del Popolo

Roby Noris direttore di Caritas Ticino
Ultima modifica di roby noris il mer feb 06, 2008 6:57 pm, modificato 2 volte in totale.

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omelia del Vescovo ai funerali di Damiano

Messaggioda redazione Caritas Ticino » mer feb 06, 2008 5:19 pm

Omelia del Vescovo mons. Pier Giacomo Grampa

Gordola, mercoledì 6 febbraio 2008
Funerali Damiano Tamagni
(Letture: Romani 6,3-9; Giovanni 11,17-27)

1. Di fronte al mistero della morte e della sofferenza le parole non sono sufficienti per superare lo sconcerto del cuore, tanto meno lo sono di fronte a questa morte assurda e sconvolgente.
Le parole sembrano perdere forza e le labbra tendono a restare mute. Si vorrebbe solo piangere. Ma ogni essere umano si interroga di fronte alla morte. Nei nostri cuori, infatti, fin dall’inizio, è stato impresso il desiderio di una vita senza fine. Noi sentiamo che il nostro traguardo ultimo non può essere la morte, ma la vita. Per questo ogni volta che incontriamo la morte sul nostro cammino ci sorprende e ci sconvolge. La morte sembra soffocare quell’anelito a vivere per sempre, che ogni uomo e donna, creati ad immagine di Dio, sorgente e compimento della vita, avvertono nel profondo del cuore. Tanto più in questa circostanza, contraria ad ogni umana ragionevolezza e ad ogni legge biologica
Una sola è la parola in grado di gettare un raggio di luce sulle tenebre che circondano la morte, in particolare questa morte.
Noi crediamo che la risposta agli interrogativi, che di fronte alla morte si alzano come grida verso il cielo, ci è data in Cristo, morto e risorto, e nella sua parola che non passa. L’anelito del nostro cuore ritrova luce e conforto nella parola di Colui che ha detto:
“Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno” (Gv 11,25-26).
Vorrei che tutti potessimo comprendere come l’unica luce che non tramonta sul nostro cammino, anche nei giorni più oscuri, è la parola di Dio, che mai passa e mai delude.

2. E’ il primo messaggio che ci viene da Damiano, dalla sua morte assurda, che non riusciamo ad accettare. E’ la risposta più radicale, ma è anche l’unica concreta, che non ci fa perdere il contatto con lui: credere che Damiano vive; è vivo in un’altra dimensione, è in una nuova realtà, così che il nostro rapportarci con lui continuerà ad essere vivo, a rimanere intenso, ad accompagnare i nostri giorni nell’attesa del ricongiungimento con lui.
Dice Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Noi vogliamo credere, come Damiano credeva; gli chiediamo di aiutarci a superare i dubbi, a vincere l’angoscia e la disperazione che scuote i nostri cuori, a diradare le nebbie e le oscurità che mettono in rivolta il nostro spirito.
La sua morte umanamente disperante diventa così un annuncio di vita, una provocazione alle nostre superficialità, un richiamo alle ragioni vere e profonde dell’esistenza.
Fuori da questa visione c’è spazio solo per l’assurdo, la rabbia, la disperazione.
“Chi crede in me anche se muore, vivrà”.
Il senso dell’affermazione non è la garanzia di una perennità della vita fisica, ma va ricercato nell’espressione “vita eterna”. Gesù è molto chiaro sul fatto di non lasciare illusioni a proposito della morte corporale, alla quale anche chi crede andrà incontro.
Essa però per il credente non sarà totalmente distruttiva; costituirà un passaggio, per quanto oscuro, una trasformazione per quanto dolorosa, verso quel dono di vita traboccante, che la fede ha già arrecato in colui che crede.

3. Un saluto lasciato sul luogo del calvario di Damiano diceva: “Dami sempre con noi”. E’ promessa certo sincera, desiderio generoso, ma conoscendo la fragilità e l’effimero che guida il cuore dell’uomo, questo nostro auspicio si realizzerà solo se noi sapremo essere sempre con lui, solo se lo sapremo incontrare là dove lui è.
Non basta credere a un’idea generosa, a un’astrazione, affidarsi a un sentimento per quanto nobile e grande. Bisogna credere in una persona viva e concreta: Gesù. E’ lui che dona la risurrezione. L’aveva detto più volte: “Chiunque crede in me, io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, ma Gesù usa qui un’espressione ben più sorprendente, che non si trova da nessun’altra parte, in nessun’altra proposta religiosa, quando dice: “Io sono la risurrezione e la vita”.
Gesù non è soltanto colui che concede la risurrezione e la vita, lui stesso, in persona, è la risurrezione e la vita. Essere cristiani vuol dire credere, come ci insegnava San Paolo, che “Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più alcun potere su di lui” (Rm 6,9).
La risurrezione di Cristo è l’unica risurrezione da cui derivano, in cui si fondano tutte le altre. Egli è il Risorto per eccellenza; tutti gli uomini che risorgeranno lo faranno in lui e per lui. Credere in Gesù risorto è aderire a lui e quindi aderire alla sua risurrezione, già ora, sentendolo vivo e presente nella nostra vita.
Damiano sarà sempre con noi, se noi saremo sempre con lui, dove lui è, come lui è : risorto in Cristo.
Solo se avremo questa fede viva, concreta, diretta, potremo superare l’angoscia che questa morte ci procura.

4. C’è ancora una domanda che si agita nel nostro cuore e lo turba. L’aveva espressa uno dei suoi amici: “Perché proprio lui?”. E rispondeva: “Non so. Non c’è un senso”. Non posso non raccogliere questo interrogativo inquietante sul senso di quello che è successo, per ribadire che davvero, umanamente, questa tragedia è senza senso. E’ frutto di comportamenti privi di senso, ci pone drammaticamente di fronte al non senso della vita, al limite del non essere di cui siamo noi pure impastati come creature finite e limitate. Ma si fanno cose senza senso, quando non si sa dare un senso alla vita.
Damiano aveva saputo dare alla sua pur giovane esistenza più di un senso positivo, generoso, impegnato. Coltivava tanti ideali, aveva traguardi precisi e alti da realizzare, era motivato da valori grandi e nobili.
Scaturivano dalla sua famiglia, dalla sua educazione crstiana, dai suoi progetti, dal desiderio di servire il paese, di raggiungere una professione interessante e utile per tutti, di impegnarsi per il bene comune. Purtroppo per l’oscura lotta del bene col male, per l’apparente trionfo del male sul bene, delle forze del nulla su quelle della virtù, ha dovuto soccombere, lasciandoci però questo interrogativo più che mai ineludibile: la vita allora è senza senso? Dobbiamo rassegnarci al trionfo del non senso? E se c’è un senso, qual è il senso della vita? Quello derivatoci dai valori e dalle virtù che Damiano ci ha proposto e ci lascia come esempio e provocazione, oppure il senso della vita è la violenza stupida, l’indifferenza egoista, l’interesse particolaristico, addirittura l’odio?
Questa sua morte è un invito a riflettere sui comportamenti senza senso, sulle cose alle quali non sappiamo dare un senso, sulla vita che deve avere un senso, ed un senso umano, un senso divino, altrimenti non è vita.
Troppo spesso i nostri giovani si imbattono in profeti del nulla, che non hanno niente da dire all’uomo come uomo, perché possa rispondere ai problemi fondamentali della sua esistenza, alle domande di senso sul valore della vita e sui comportamenti che soli la rendono umana e responsabile; ma questo nulla lo dicono con grande impegno e dovizia di mezzi; annunciatori aggressivi del vuoto esistenziale, che cercano di mimetizzare con lo scintillio di proposte effimere, leggere, inconsistenti, portatrici di una cultura del niente, che diviene cultura di morte.
Damiano aveva il senso cristiano della vita, dove l’umano è impegnato a realizzarsi in pienezza unendosi col divino, il tempo viene proiettato nel compimento dell’eterno.
E’ il secondo messaggio che dobbiamo raccogliere dal sacrificio di Damiano; l’invito a dare un senso umano, un senso divino, un senso cristiano alle nostre storie fragili e precarie, un senso dove l’umano si incontra col divino nelle nostre vite e nelle nostre esistenze.

Lo dico in particolare agli amici di Damiano e ai giovani presenti.
Non bastano le proteste e le contestazioni, non bastano la rabbia e l’indignazione, bisogna costruire la vita su valori forti, positivi, coerenti, sui valori della nostra storia e tradizione cristiana che richiedono conoscenza, impegno, sacrificio e generosità, non vendetta.
Occorre un senso morale serio e coerente, se vogliamo porre un freno alla violenza, alla prevaricazione, alla stupidità senza un motivo e senza ragioni.
E’ giusto chiedere allo Stato che ci assicuri legalità e ordine, ma prima ancora sono i cittadini a dover porre le basi per una società nuova e diversa.

5. Preoccupato di aiutare le nuove generazioni a dare un senso alla vita, ho scritto la mia ultima lettera pastorale sull’emergenza educativa oggi, dal titolo quanto mai significativo: “Figlio, perché hai ci hai fatto questo?”.
La domanda mi si agita nella mente e nel cuore ed emerge implacabile per gli autori del gesto omicida: “Perché avete fatto questo?”.
Come ultimo messaggio di Damiano vi propongo questo interrogativo angosciante, che ci accomuna tutti. Inquieta certamente la coscienza dei genitori degli autori di quell’atto senza senso; lo cogliamo sorgere sulle loro labbra pure disperate: “Figlio, perché ci hai fatto questo?”. Vorrei che risuonasse nella coscienza di ognuno di noi, perché comunque non può restare impunito un comportamento tanto efferato, che esige giustizia.
Lo richiedono in un messaggio pieno di dignità e di equilibrato, concreto senso umano e cristiano la sorella e i genitori di Damiano. Siano ascoltati tanto nella loro richiesta di evitare ogni strumentalizzazione del loro dolore per fomentare odio e razzismo, quanto nell’impegno a porre fine a questa cultura di violenza assurda.
Anche se la giustizia non ci potrà ridare Damiano, si prendano i provvedimenti dovuti secondo giustizia, consapevoli comunque che solo l’amore può risolvere alla radice i problemi di una vera convivenza sociale, di cui è stata una dimostrazione eloquente la marcia silenziosa di domenica pomeriggio.
La città di Locarno ha così dimostrato la sua maturità ed il suo senso civico, la sua capacità di solidarietà e la volontà di voltare pagina, senza dimenticare, ma indicando le scelte che sole possono far crescere un’autentica convivenza.
Ho parlato di amore, perché questo era l’atteggiamento di fondo che Damiano aveva verso la vita e quindi verso il prossimo.
Lo ha dimostrato anche con il gesto generoso della donazione degli organi, che salveranno la vita a cinque persone.
Un gesto che dice la nobiltà e l’altruismo suo e dei suoi cari, in sintonia con quanto ci suggerisce il Vangelo: quello che avrete fatto ad uno di questi miei fratelli l’avrete fatto a me.
E sono convinto che solo l’amore può dare senso compiuto anche a questo suo sacrificio e risolvere i problemi di convivenza in un paese che voglia ancora dirsi cristiano.
L’amore non esclude la giustizia, ma ci fa guardare oltre, ci propone il perdono.
Parola difficile da pronunciare, ancora più difficile da realizzare. Eppure ritengo sia questo l’ultimo messaggio che viene da Damiano, dal suo cuore nobile, generoso, aperto e cristiano.
Ogni discepolo del Signore crocifisso, che non dimentica mai di essere stato salvato dalle sue colpe per la misericordia del Padre, non può non perdonare, se vuole con coerenza continuare a dirsi cristiano, liberandosi da ogni risentimento.
Vinciamo ogni tentazione di vendetta e di violenza, di grettezza e di paura.
Lavoriamo assieme: Famiglia, Chiesa, Scuola, Stato e Società con i suoi mezzi di informazione per rispondere in modo adeguato e forte ai problemi posti dall’emergenza educativa.

Damiano, grazie, non sia banale dire che ci mancherai, e anche che hai rappresentato tanto e ci hai dato molto, tutto, nel breve volgere dei tuoi 22 anni.
Ci hai dato più di ogni altra esperienza di vita.
Grazie, Damiano, fa che viviamo sempre in te, che sappiamo vivere come hai vissuto tu: con lo stesso slancio, la stessa voglia, il medesimo amore. Damiano, Grazie.

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dal GdP del 4 febbraio 2008

Messaggioda redazione Caritas Ticino » mer feb 06, 2008 5:32 pm

Giornale del Popolo, Lunedì 4 febbraio 2008
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editoriale
GRANDI IDEALI PER BATTERE LA VIOLENZA
di CLAUDIO MÉSONIAT*
Discettare sull’evento tragico di venerdì sera a Locarno, cercando magari di tirare la coperta etica dalla propria parte, sarebbe uno scempio peggiore che accanirsi sul cadavere di Damiano. O peggio, sul dolore dei suoi cari (come anche su quello dei genitori dei tre ragazzi croati). Sarebbe meglio limitarsi a cercare di stare loro vicini, nella preghiera. C’è un unico motivo che mi spinge a dire due parole su questa orrenda storia. Il sacrificio misteriosamente chiesto a questo ragazzo ventiduenne forse è anche un urlo che vuole impedirci di stare ad assistere indifferenti allo strazio di una generazione che sta entrando nella vita senza speranza. Arrischiamo allora due parole. La prima è che il carnevale non c’entra nulla, anche se un collega mi mostrava allarmato qualche giorno fa il bilancio stilato dalla polizia al termine di una due giorni carnevalesca in una nostra valle (non dico quale, non serve): risse, incidenti, feriti, ambulanze, ricoveri in ospedale, quantità di droghe sequestrate. Un bollettino di guerra, che in realtà credo concentri semplicemente in un paio di giorni quel che di solito accade sull’arco di un paio di settimane, ma che conferma quel che abbiamo sotto gli occhi quotidianamente: sempre più giovani non sanno divertirsi senza sprigionare una violenza distruttiva e soprattutto autodistruttiva. Una seconda cosa riguarda l’incidenza dell’etnia e della cultura dei giovani omicidi, di cui si sta comprensibilmente parlando molto in queste ore. È una questione spinosa e delicata, e allo stato attuale della conoscenza dei fatti è difficile calare giudizi. Alcuni lettori, genitori in particolare, ci hanno mandato lettere allarmate e allarmanti in proposito (le pubblichiamo a p. 26). A me pare chiaro che popoli che hanno patito per decenni la disumanizzazione del comunismo e della guerra non possano non recare segni profondi di questi drammi. Ma ogni persona è dotata di libertà ed è atroce marchiare all’ingrosso slavi e albanesi come “persone violente”, come trent’anni fa c’era chi bollava siciliani e meridionali quali “mafiosi”. Ognuno di noi conosce personalmente famiglie e lavoratori che onorano i Paesi balcanici da cui provengono.
Faccio notare, per chi non se ne fosse accorto, che questo giornale non fa del buonismo multietnico una propria bandiera, ma cerca di chiamare le cose con il proprio nome: qualche giorno fa, ad esempio, abbiamo aperto con un ampio servizio che puntava il dito sulle filiere africane dello spaccio di cocaina in Ticino. Penso che neppure la Svizzera possa sottrarsi al “meticciato” di civiltà imposto dal villaggio globale in cui viviamo.
Molto dipende dalla robustezza della cultura cui apparteniamo noi svizzeri che accogliamo queste persone.
Fermo restando che sugli abusi evidenti da parte di chi viene accolto -si pensi al diritto d’asilo- non possiamo beotamente nicchiare. Resta, infine, la questione di fondo, cui accenna don Tamagni (zio di Damiano) nelle parole addolorate che ha voluto consegnare al nostro giornale. C’è un problema educativo gravissimo di cui le nostre generazioni adulte portano la responsabilità.
E senza “grandi ideali” non si educa. Su questo, ognuno come può, per quel che può, è chiamato a fare i conti. Non si tratta di imporre niente a nessuno, ma di mostrare con la vita la grandezza e la bellezza di quel che abbiamo ereditato. E il cristianesimo (il “centuplo quaggiù”) ne è il tesoro più profondo.

*direttore del GdP


Giornale del Popolo, Lunedì 4 febbraio 2008

Lettera a Damiano
di PIER GIACOMO GRAMPA *
Damiano carissimo, vorrei poterlo chiedere a te, ma sono sicuro che non daresti la colpa al carnevale, né alla provenienza dei giovani omicidi. Eri così giovane, così buono, così intelligente; aperto, generoso, sensibile; promettevi tanto per la vita e ti aspettavi tanto dalla vita, a cui hai dato tutto te stesso, anche i tuoi organi, che permetteranno ad altre persone di continuare a vivere, mentre tu non sei più con noi. Saresti grato anche tu alla sensibilità dimostrata dalle autorità comunali di Locarno, che hanno sospeso, almeno nella loro città, ogni manifestazione festaiola. L’atto era dovuto, ma resta il merito di averlo messo in atto. Ci sono valori, come la vita, che non sono commerciabili con nessun altro. Sono anche sicuro che non faresti polemiche xenofobe; eri troppo intelligente e sensibile per speculazioni meschine.
Non cavalchiamo l’onda del risentimeno nazionalistico. La vera causa è un’altra. Il vuoto morale, il bullismo stupido, insulso e prepotente, lo sfascio di una gioventù che non coltiva più valori, che non conosce più il rispetto dell'altro, perché non ha una coscienza umana formata e responsabile, una dimensione religiosa autentica, fedele e coerente. Dopo quello che era successo i tre hanno continuato a divertirsi, come se niente fosse.
Una gioventù che non sa neanche cosa sia “il non fare agli altri quello che non vuoi venga fat¬to a te”.
Di questo dobbiamo preoccuparci, a questo dobbiamo saper portare rimedio. Qualcuno parlava di blindare le strade e le città, ma non è trasformando in prigione il nostro “habitat”, che risolviamo i problemi della convivenza. Sono le coscienze da blindare e questo compito a chi tocca? Si pensa forse di favorirlo indebolendo la presenza e la funzione delle Chiese?
Di questi argomenti avrei voluto discutere con te, purtroppo non è più possibile. Questa è la vera tragedia irreparabile per noi, per i tuoi genitori distrutti, i familiari affranti, gli amici ancora increduli. Quando ti ho visitato per un’ultima benedizione, preghiera e saluto, prima che ti portassero a Lugano per l’espianto degli organi, non ho potuto non scoppiare in lacrime. Questo tuo gesto nobile e grandissimo dice ancora di più quanto ignobile e vigliacco sia stato il comportameno di chi ti ha assalito. Caro Damiamo, ti rinnovo ancora un’ultima richiesta. Adesso che sei nel mistero della luce di Dio, adesso che partecipi alla gloria del Cri¬sto, morto e risorto, aiuta noi, che restiamo in cammino e fatichiamo a vedere perché abbiamo gli occhi velati di pianto, aiutaci a credere che vivi nell’abbraccio di Dio, il Padre che sta nei cieli. Dio è amore e non può abbandonare nel nulla le sue creature, per le quali ha dato il Figlio.
Tu che vedi ormai queste realtà “faccia a faccia”, aiutaci a capire, ottienici la forza di continuare a vivere anche per te, per il ricordo che meriti, per l’onore che ti dobbiamo.
Damiano carissimo, un abbraccio struggente, un arrivederci in cielo e fammi capire che anche tu, come Gesù sulla croce, hai chiesto al Padre di perdonare quegli sciagurati, perché non sapevano quello che facevano: «Padre, perdonali, non sanno quello che fanno». A noi resta il compito immane di provvedere, perché eventi così irreparabili non si ripetano.
A te, Damiano, a Dio.
IL TUO VESCOVO PIER GIACOMO

*Vescovo di Lugano
Ultima modifica di redazione Caritas Ticino il ven feb 08, 2008 10:32 am, modificato 2 volte in totale.

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dal GdP del 6 febbraio 2008

Messaggioda redazione Caritas Ticino » mer feb 06, 2008 5:35 pm

Giornale del Popolo, Mercoledì 6 febbraio 2008
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Lettera della famiglia di Damiano
Ringraziamo di cuore tutta la popolazione per la grande solidarietà dimostrata nei confronti della nostra famiglia.
Chiediamo però, nel rispetto di Damiano e del nostro grande dolore, di non strumentalizzare la sua tragica morte per fomentare odio e razzismo.
Riteniamo che si debbano punire duramente e in maniera esemplare gli assassini di nostro figlio, come persone, indipendentemente dalla loro provenienza.
Vorremmo che la morte di Damiano sia uno stimolo perché si ponga finalmente fine a questa cultura di violenza gratuita, a partire dalle scuole fino alle manifestazioni sportive.
Se i violenti verranno isolati dal gruppo non avranno più il senso per esserlo e se proprio saranno incorreggibili, si prendano le misure più severe.
I giovani e la gente tutta di un paese civile hanno il diritto di poter partecipare a manifestazioni per divertirsi o anche semplicemente passeggiare in città senza il timore di essere molestati o addirittura assassinati.
Deborah, Annamaria e Maurizio Tamagni
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Don Samuele Tamagni ricorda il nipote Damiano

Messaggioda redazione Caritas Ticino » ven feb 08, 2008 10:28 am

Don Samuele Tamagni ricorda il nipote Damiano

La puntata di Strada Regina di sabato 9 febbraio 2008 in onda su TSI1 interviene nel dramma della famiglia Tamagni che ha accomunato tutto il Ticino offrendo la testimonianza di don Samuele Tamagni, diacono, futuro prete e zio di Samuele. Emergono i sentimenti, le domande senza risposta, le speranze e il desiderio di tornare comunque a spendersi per i giovani e la società.
Sul sito di http://www.stradaregina.ch si può cercare la puntata 116 del 9 febbraio 2008 dove si trova il link per visionare il servizio su PC.
Ultima modifica di redazione Caritas Ticino il gio feb 14, 2008 11:27 am, modificato 1 volta in totale.

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CARITAS INSIEME TV 16.2.2008

Messaggioda redazione Caritas Ticino » gio feb 14, 2008 11:25 am

CARITAS INSIEME TV 16.2.2008

La trasmissione televisiva di Caritas Insieme andata in onda sabato 16 febbraio 2008 su TeleTicino è dedicata alla riflessione sul tema "Disagio giovanile, violenza e bisogno di identità" con lo psichiatra e psicoterapeuta Graziano Martignoni ed è disponibile online
http://www.caritas-ticino.ch/Emissioni%20TV/600/687.htm

La trasposizione radiofonica di questo incontro televisivo, andata in onda su Radio Fiume Ticino il 17.2.2008 è disponibile online http://88.198.43.34/radio/2008/radioCaIns.17.02.MP3

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TRA CRISI IDENTITARIA E BISOGNO DI APPARTENENZA

Messaggioda roby noris » dom mar 16, 2008 10:21 pm

Dal numero 1 2008 della rivista Caritas Insieme online http://www.caritas-ticino.ch/riviste/el ... online.htm

l'articolo che segue è online http://www.caritas-ticino.ch/riviste/el ... ria%20.pdf

TRA CRISI IDENTITARIA E BISOGNO DI APPARTENENZA SI GIOCA IL DRAMMA ESISTENZIALE

La violenza giovanile è una delle espressioni drammatiche della ricerca disperata di identità

Lo sconcerto del Ticino a carnevale per la morte di un ventiduenne a Locarno vittima della violenza di tre giovani, di cui non si conosce ancora bene né la dinamica né le cause ammesso che ce ne siano, è stato lo stimolo per numerose riflessioni sulla violenza, sul disagio giovanile e inevitabilmente sull’integrazione di comunità straniere visto che i tre aggressori sono di origine kosovara. La commozione e la partecipazione di tutti, stretti intorno alla famiglia di Damiano Tamagni, hanno sollecitato un approfondimento e una presa di coscienza di fronte alla violenza latente che in questo caso è esplosa uccidendo un innocente. A Caritas Insieme abbiamo provato a dare il nostro contributo per capire di più e per contribuire a individuare strade da percorrere affinché drammi simili non si riproducano.
Sul nostro forum online abbiamo aperto uno spazio con diversi interventi apparsi sulla stampa che ci sono sembrati significativi e poi con Graziano Martignoni, ospite del nostro studio TV di Caritas Ticino a Pregassona, abbiamo cercato di porci quelle domande sconcertanti che molti si sono fatte, increduli su quanto avvenuto; l’incontro è andato in onda su TeleTicino il 16 gennaio e in versione radiofonica su Radio Fiume Ticino il 17 febbraio, e il video nella sua versione integrale di 40 minuti è disponibile in rete sul nostro sito www.caritas-ticino.ch. Il nostro ospite, psichiatra e psicoterapeuta, ma anche “traghettatore” dei nostri percorsi di riflessione televisiva - come la serie Isolario -, ha focalizzato nella “questione identitaria” il punto centrale dell’analisi di questo quadro complesso e preoccupante.
Prendo allora spunto dalle riflessioni messe in video e online, per fare qualche considerazione personale su una realtà che spesso mi sembra sia mal compresa. Così almeno mi indicano diverse reazioni, alcune strumentalizzazioni politico-mediatiche e anche alcuni dati di certi sondaggi che, pur presi con le dovute pinze, qualcosa dicono comunque.
L’integrazione degli stranieri non c’entra.
Stante il fatto che i tre aggressori sono stranieri ma nati e cresciuti in Ticino in famiglie inserite da trent’anni nella realtà del cantone, non si può spostare questa tragedia su un problema di integrazione di comunità straniere o di marginalità legata a gruppi etnici. C’è chi ha fatto questo spostamento di piani, ottenendo come unico risultato quello di ignorare le vere cause della violenza giovanile con cui la società elvetica deve fare i conti, come tutte le società occidentali avanzate. Il meccanismo soggiacente a questo errore di prospettiva consiste nello spostare altrove, lontano da noi, l’origine e le ragioni del disagio giovanile che anche se non tocca genericamente tutti i giovani, è comunque un fattore che caratterizza alcune fasce giovanili. Questo spostamento rassicura perché evita il confronto drammatico diretto con i problemi intrinsechi al nostro modello di società, che ci siano o meno stranieri. In altri termini se i cattivi sono stranieri allora gli autoctoni si sentono rassicurati, sollevati dal peso insostenibile “che i cattivi ci siano anche fra gli svizzeri” e le soluzioni sembrano a portata di mano: ci si illude allora che sia sufficiente isolare o buttare fuori coloro che sono identificati come i cattivi, causa di tutti i mali, e la violenza giovanile non sarà più un nostro problema. Si è fatto lo stesso errore macroscopico col tema drammatico della droga qualche anno fa identificando negli stranieri la causa della tossicodipendenza: era liberante pensare che fossero gli stranieri, i cattivi, a portare la droga ai nostri bravi giovani invece di dover affrontare il terribile problema della tossicodipendenza presente in tutte le società avanzate. Accettare che i mali della nostra società, pur essendo acuiti talvolta da fattori estranei, siano sostanzialmente radicati nei processi di sviluppo dei modelli delle società occidentali, è un peso enorme e insopportabile. È quindi comprensibile, anche se profondamente errato, che si cerchino dei capri espiatori su cui scaricare le responsabilità e sentirsi così liberati dal giogo inaccettabile dell’impotenza. Ciò che spaventa di più è il confronto con problemi difficilissimi da risolvere, soprattutto in tempi brevi, che appaiono senza soluzione e ci lasciano senza fiato . Ammettere questo, senza isterismi ma col coraggio di affrontare lunghi percorsi di rimessa in discussione dei propri modelli sociali, non è cosa evidente mentre scivolare nelle semplificazioni di matrice populista-xenofoba è davvero facile. Aggiungo che anche quando si identifica un gruppo, appartenente a una etnia, che ha comportamenti violenti, talvolta l’etnia e la cultura d’origine non c’entrano affatto, mentre sono solo le condizioni socio-economico-culturali in cui vivono queste persone a determinare comportamenti e forme di violenza o di devianza. Insomma persino le bande di giovani che si identificano nella propria origine etnica, di fatto non hanno quasi più nessun aggancio con la cultura dei paesi di origine, paesi che non conoscono neppure e di cui parlano una lingua impoverita e trasformata da una lontananza reale e dalla perdita delle proprie radici: le realtà di periferia delle grandi metropoli europee spesso vivono queste situazioni di grando disagio che però solo molto marginalmente hanno a che vedere con problemi di integrazione di stranieri, mentre sono l’espressione drammatica di condizioni socio-economiche degradate che si intersecano con il disagio giovanile di natura identitaria che vivono i giovani di qualunque nazionalità. I disordini avvenuti nella banlieu parigina in tempi recenti non dipendono dall’origina di quei giovani ma dalle condizioni socio-economiche disastrate di quella periferia e dal degrado culturale in cui sono precipitate quelle zone spesso dimenticate.
Locarno non è alla periferia di Parigi e la situazione fortunatamente non è quelle della banlieu francese ma le radici di un certo disagio giovanile sono comuni e si possono ritrovare in ogni angolo d’Europa e in ogni società avanzata come quelle del nord America, perché sono di natura sostanzialmente esistenziale. Questo evidentemente non significa che ad ogni angolo ci siano giovani che potrebbero bruciare auto, spaccare vetrine o uccidere innocenti. E non significa neppure che non esistano problemi seri di integrazione di comunità che vivono una chiusura a ogni forma di possibile integrazione nella realtà europea, ma bisogna distinguere bene ciò di cui si sta parlando senza tentare semplificazioni indebite. Le famiglie dei Balcani che da trent’anni vivono in Ticino non hanno problemi di integrazione che abbiano a che vedere con l’esplosione della violenza giovanile anche se qualche giovane di quella comunità dovesse farsi forte della sua “origine etnica”, non avendo la prima idea di cosa possa significare un’appartenenza nazionale con tutto le sue implicazioni storico-politiche.
Violenza giovanile per comunicare un disagio di natura identitaria.
Il fenomeno della violenza giovanile quindi va compreso e ricontestualizzato in una sorta di linguaggio per comunicare un disagio di natura identitaria. Per molti giovani infatti, anche se pochi lo esprimono fortunatamente con la violenza fisica, il disagio nasce da una difficoltà a riconoscersi appartenenti ad un gruppo, a una comunità, che risponda al proprio bisogno di sentirsi identificati, nominati, cioè chiamati “per nome”, ricollocati in una dimensione che ridia significato, che risponda alle domande fondamentali “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché esisto?”. L’affermazione di sé attraverso l’appartenenza a un gruppo che ridefinisce il soggetto, lo fa sentire accolto e lo difende, lo toglie da quell’insopportabile solitudine dell’anonimato dandogli una “dignità” e una “paternità”: è il meccanismo che creao i fenomeni di massa in cui l’individuo rinuncia volontariamente alla sua capacità critica sposando in toto la logica e le indicazioni del gruppo a cui ha deciso di appartenere. Le dittature o i movimenti ideologici più scellerati possono prendere piede solo grazie a processi di questo tipo - non si spiegherebbero altrimenti - dove l’individuo scompare a favore di un comportamento massificato. Fortunatamente queste tragedie che hanno fatto storia, avvengono in numero limitato ma gli stessi meccanismi li ritroviamo anche nei comportamenti più innocui. Non importa quale sia l’aspetto che caratterizza il gruppo, dallo sport al gioco, dall’ideologia alla filosofia o alla religione, ciò che conta è la risposta al bisogno di identità. Ci si può allora riconoscere in simboli che hanno perso completamente il significato originale e diventano “simulacri”, così li ha chiamati Graziano Martignoni nel nostro incontro televisivo riferendosi a quei gruppi che cercano di trovare una identità a partire dall’origine “balcanica” che di fatto è al massimo solo un vago e impreciso riferimento ai nonni. Si tratta di simulacri di un’identità, che non hanno più nessun vero riferimento al simbolo originario, così funzionano le immagini di Che Guevara piuttosto che i simboli nazisti o qualsiasi altra cosa. A partire da questo moto naturale di ricerca identitaria se non si percorrono traiettorie formative e costruttive, invece di essere appagati nel proprio bisogno di trovare un’identità, si sviluppano solo derive che possono anche sfociare nella violenza come espressione del disagio. Ma la ricerca di identità non va demonizzata perché il meccanismo di appartenenza a un gruppo può essere deresponsabilizzante ma può portare anche a una maturazione dalla propria situazione giovanile a quella adulta. Molto dipende ovviamente dal tipo di gruppo che incontra e a cui aderisce chi è alla ricerca della propria identità. Tutti i gruppi, associazioni e comunità, che hanno punti di riferimento di tipo ideale, filosofico o religioso o genericamente umanitario, offrono un percorso pedagogico attraverso espressioni di volontariato, di vita comunitaria e di approfondimento: se da una parte questo appaga il bisogno di appartenenza e di identità, dall’altra offre l’opportunità di una maturazione che generalmente avviene in percentuali piuttosto buone. Ma siamo di fronte a esperienze minoritarie che esistono ma non sono riconoscibili e individuabili da moltissimi giovani che cercano altrove la risposta alla questione identitaria.
La responsabilità e l’angoscia degli adulti
Ci si chiede continuamente cosa si debba fare per offrire ai giovani delle esperienze formative, ci si domanda come fare della prevenzione, come proporre dei modelli interessanti, ma le statistiche non fanno che confermare lo scacco continuo. È come se non ci fossero soluzioni, talvolta se ne abbozzano alcune, si sperimentano e poi regolarmente si deve subire un nuovo smacco. Mi permetto di affermare che ci sia un errore di fondo in questi tentativi più che comprensibili di dare risposte a una certa angoscia di fronte ai mali delle nostre società avanzate: l’errore sta nel non riconoscere che i mali dei giovani sono solo lo specchio dei mali degli adulti e finché non si curano gli adulti non può esserci vera cura per i loro figli. Credo che la stessa categorizzazione di giovani come entità separata e distinta dagli adulti, con esigenze diverse, sia già in sé fonte di errore perché focalizza l’attenzione sui sintomi che non sono curabili ma al massimo controllati. La questione di fondo è la questione esistenziale che si esprime nel bisogno identitario e di appartenenza per tutti gli esseri umani di qualunque età. Cambia solo il linguaggio per manifestare il disagio. Ma adulti che rimuovono la questione esistenziale, sommergendola di surrogati per evitare di precipitare in una crisi profonda, non possano trovare risposte per i cosiddetti “giovani” che comunicano sostanzialmente lo stesso disagio esistenziale anche se attraverso modalità completamente diverse. Il problema è societario e collettivo, inutile quindi tentare di addossarlo ai capri espiatori di turno. Se le ideologie sono crollate definitivamente col crollo dei muri, se Dio è morto coi processi di secolarizzazione, e il terrore di una verità assoluta ci ha precipitato nel relativismo più totale, non dobbiamo meravigliarci tanto del disagio giovanile incurabile. Attenzione a non cadere nell’illusione che grosse sfide come la violenza giovanile si risolvano col “buon esempio” degli adulti; quegli adulti che scimmiottano un modello umano poco affascinante adattato al pensiero dominante, ma vorrebbero poi che questo abito scomodissimo fosse indossato senza rigetto dai giovani. E se ci si ferma al controllo dei sintomi rimarranno solo interventi polizieschi smisurati che non impediranno comunque che ogni tanto una nuova tragedia rimetta sul tavolo la questione. Allora credo che l’unica via d’uscita sia la rimessa in gioco dell’ordine di valori a cui la nostra società vuole fare riferimento.
Mamma TV è una sola da Palermo a Capo Nord
Consideriamo ad esempio che a formare le coscienze dei giovani e degli adulti siano in buona parte i contenuti che le televisioni, condizionate di fatto solo dagli indici di ascolto, confezionano in programmi di intrattenimento dall’aria innocua ma dagli effetti alla lunga devastanti. Le centinaia di canali TV disponibili hanno una programmazione ampia che offre di tutto, quindi anche approfondimento, prodotti culturali, artistici e informazione seria ma ciò che fa il pieno di ascolti è l’intrattenimento con spettacoli, talk show, realTV, quiz e altri contenitori quasi tutti uguali da nord a sud. Spesso si tratta di modelli inventati da qualche parte, come “il grande fratello” e poi venduti o imitati in tutto il resto dell’Europa, per questo nell’intrattenimento si ha l’impressione di avere la stessa TV da Palermo a Capo Nord. I genitori si preoccupano dei programmi che contengono sesso e violenza, spesso poco pericolosi e sostanzialmente innocui, senza rendersi conto che i danni più gravi vengono dallo stillicidio implacabile delle proposte di intrattenimento che impongono in modo soft, quasi impercettibile, modelli terrificanti per stupidità e inconsistenza etica. Modelli di comportamento individuale e modelli sociali che sembrano calcolati in un simulatore per testare fino a quando possa sopravvivere una specie vivente prima di autoannientarsi. Presentatori di successo e veline sono gli idoli di giovani e adulti, e la giustizia sommaria di “Striscia la notizia” che fa sentire tutti dalla parte dei buoni è la vetta della coscienza civica, la parodia del bene comune nelle mani dei vigilantes. E non tiriamo in ballo la rete internet demonizzandola perché in se è uno strumento straordinario di comunicazione e di trasmissione della cultura tanto quanto può esserlo la TV o la carta stampata, semplicemente troppi adulti non sanno usarla e quindi non capiscono assolutamente cosa ci facciano i loro figli online.
Per le alternative ci vuole la password
Le alternative ci sono, ce ne sono tante e non sono mai state così facilmente alla portata di tutti, ma paradossalmente proprio nell’era della comunicazione le alternative all’appiattimento globalizzato sono di difficilissimo accesso, sono codificate per un pubblico di nicchia. Inutile dire ai giovani che le alternative al bar e alla discoteca sono accessibili a tutti perché non è vero, e per avere la password per divertirsi e per utilizzare il proprio tempo in modo costruttivo bisogna far parte di una cerchia minoritaria e andare controcorrente. Se si ha la straordinaria fortuna di nascere o finire per caso in una di quelle nicchie alternative dove non ci si accontenta di vivere nel pollaio ma si guarda con interesse l’aquila che vola in alto, allora le opportunità straordinarie a portata di mano o di click del mouse diventano pane quotidiano, il bisogno identitario e di appartenenza si giocheranno all’insegna della scoperta del bello e del senso delle cose, la speranza diventerà una categoria corrente. Sono purtroppo esperienze di nicchia che indicano una strada che il pensiero dominante non vuole percorrere.
Ma ogni tanto ci sono fenomeni di grossa portata che sembrano davvero sovvertire ogni previsione.
Vale la pena in questo senso ricordare il fascino incredibile che Papa Giovanni Paolo II esercitava su milioni di giovani negli ultimi anni della sua vita, quando anziano, ammalato e tremante, invitava con voce quasi incomprensibile la gioventù a vivere “eroicamente” indicando una verità assoluta: quell’uomo perdente secondo tutti i modelli oggi vincenti era guardato da milioni di giovani di ogni angolo del pianeta come un padre. Dove “padre” significa colui che definisce il figlio nella sua identità e lo sostiene nel suo cammino alla ricerca della risposta alle domande “Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché esisto?”


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