riflessioni interne sul sociale

futuro e modelli
roby noris
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riflessioni interne sul sociale

Messaggioda roby noris » gio mar 18, 2004 9:05 pm

Desidero proporre alla cerchia più ristretta degli operatori, volontari e altri vicinissimi all'attività di Caritas Ticino, un tentativo di scambio di riflessioni su questioni sociali che fanno l'oggetto fra di noi di conversazioni al Sigrid Undset Club ma che possono poi diventare progetti o piste di lavoro una volta passata la prima fase del brainstorming e del necessario sgrossamento. Vorrei poi, se funzionerà, passare a una seconda fase dove il materiale proponibile a un pubblico più vasto (per ora ancora ristrettissimo ma speriamo nell'allargamento) sarà inserito in topic aperti. Per prudenza e per permettere anche l'espressione grossolana e provvisoria di idee e riflessioni propongo una prima fase in INTERNO.

Nuovi scenari possibili dopo i bilaterali a giugno
Si può ipotizzare che dopo l'entrata in vigore a giugno delle facilitazioni per l'entrata degli stranieri in CH ci possano essere nuovi scenari di povertà relativa con persone che potrebbero avere il diritto di rimanere in Svizzera per un certo tempo pur non avendo i mezzi di sussistenza considerati normali. Che interrogativi potrebbe porre questo tipo di situazioni a Caritas Ticino?
Fino ad oggi abbiamo affrontato il fenomeno di un certo "turismo" con una posizione ferma di fronte alla mancanza di progettualità di chi va all'avventura ma un nuovo scenario sociopolitico potrebbe cambiare i termini della valutazione.
Ne abbiamo discusso in modo più ampio con Dani e Marco F. stamattina al SUC, ma vi riporto per iniziare lo start della questione.

lucia
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Messaggioda lucia » gio mar 18, 2004 11:20 pm

grazie per la fiducia, la questione, e sicuramente anche le prossime che verranno, mi sembra interessante, nonché educativa per il nostro ragionamento.
Credo di aver bisogno di più informazioni: pensavo che le facilitazioni riguardassero l'entrata di persone che hanno una prospettiva reale di lavoro, e confesso di non essermi ancora posta il problema di cosa potrebbe succedere una volta che queste persone il lavoro non dovessero più avercelo. Libera circolazione significa che chiunque lo desideri potrà partire da Caltanisetta, piuttosto che da Tallin, stabilirsi a lugano ( dove?) e poi cercarsi il lavoro? O ci sono delle regole da rispettare, delle condizioni da ossequiare?
L'assicurazione disoccupazione cosa dice? per quanto tempo devi essere impiegato da qualche parte, per poter ricevere le indennità? Non ditemi che sono un'ignorante privilegiata, che non sa cose basilari perché le è sempre andata bene, è vero, lo so già.

roby noris
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Messaggioda roby noris » ven mar 19, 2004 1:09 am

la faccenda è complicata soprattutto dal fatto che se ho capito bene molto deve ancora essere definito. Ma ad esempio chiunque potrà venire per tre mesi senza alcun permesso e cominciare immediatamente a lavorare in attesa poi di richiedere un permesso. Ci chiediamo cosa succederà a chi ad esempio lascerà subito il lavoro non avendo ancora un permesso, avrà indennità o no? quanto potrà rimanere? Interverrà l'assistenza? D'altra parte l'ipotesi che abbiamo fatto di un nuovo scenario di povertà potrebbe anche non realizzarsi affatto. È difficile dirlo ora. Ma crediamo sia interessante comunque riflettere su un'ipotesi non più così remota come poteva esserlo qualche anno fa quando a parte i clandestini che non si vedevano e i candidati all'asilo abbastanza sotto controllo non esisteva altra possibilità di persone straniere che sbarcavano senza mezzi di sussistenza per rimanere in CH.

La cosa che ci ha sollecitato di più è comunque la questione metodologica che sta alla base di ogni intervento sociale. Noi abbiamo abbracciato da anni la linea della responsabilizzazione della persona indigente come unica soluzione duratura, partendo dal presupposto che nessuno può sostituirsi ad un altro pena l'assistenzialismo che identifichiamo come il male maggiore dello sviluppo dello stato sociale. Questo pensiero apparentemente lineare e condivisibile quando si è coerenti porta a forme di intervento o di non intervento che non sono invece comprese e tantomeno condivise da un sacco di gente di buona volontà che a nostro avviso, senza rendersene conto perpetra la struttura di impoverimento che l'indigente ha adottato suo malgrado. Insomma quando lo psichiatra Milanese Giacomo Contri disse a una platea di operatori sociali allibiti che "anche gli andicappati vanno all'inferno" stava affermando magistralmente il primato della libertà e della dignità dell'individuo persino quando è debilitato da un handicap. Solo la persona può scegliere per se stessa una nuova strada e nessuno può sostituirsi ad essa in questa scelta. Allora l'intervento sociale diventa un lavoro di sostegno e di richiamo alla responsabilità personale, dove si lavora su ogni indizio di rinascita e ricostruzione personale, ma dove ci si tira da parte e si guarda la persona affondare quando non c'è nessun di questi indizi. Ed è qui che casca l'asino perché ammettere che tu operatore o volontario o uomo di buona volontà non puoi fare nulla per chi ti chiede aiuto ma non vuole aiutarsi da solo, è quasi inaccettabile. E la trappola dell'assistenzialismo scatta qui. Gli interventi individuali o i grandi progetti nel terzo mondo sono quasi sempre intrisi di assistenzialismo che va benissimo a tutti gli attori della vicenda: chi chiede aiuto vuole ricevere qualcosa che crede sia solo nelle mani dell'altro ricco e chi da l'aiuto crede la stessa cosa dall'altra parte della barricata e ritiene di essere lui il solo detentore di ciò che è risolutivo. Ma non funziona anche se si continua imperterriti così.
La nostra riflessione parte quindi dal fatto che siamo costantemente confrontati con questo genere di fraintendimento sulla solidarietà e sulla carità evangelica da parte di chi sembra essere ben più buono e accogliente di noi mentre siamo convinti che contribuisca a mantenere i poveri nella loro trappola. Eserciti di operatori sociali e montagne di buone azioni hanno come risultato il mantenimento senza speranza dei poveri nella loro condizione. Ma quando dobbiamo applicare ciò che crediamo e dire di no per coerenza a una richiesta di aiuto, non ci sentiamo soddisfatti per aver applicato un metodo in cui crediamo fermamente.

lucia
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Messaggioda lucia » ven mar 19, 2004 10:16 pm

già: è come dire di no a tuo figlio che chiede una semplice caramella, e tu ne hai una scatola piena, ma è mezzogiorno, ed il pranzo sarà pronto fra meno di 10 minuti...

anche se in realtà lui non può aiutarsi, se non prendendo la caramenlla senza chiedere...

Dani Noris
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Messaggioda Dani Noris » mar mar 23, 2004 9:55 pm

La riflessione così come la poniamo a Caritas ticino, così come l'ha espressa Roby è coerente con un vero sguardo di promozione umana. L'assistenzialismo però è talmente radicato nella prassi e nel pensiero di che a volte mi sono sentita disorientata, per non dire in colpa. Ora che ho alle spalle oltre 10 anni di servizio sociale posso affermare che quelle poche volte che davvero sono riuscita a dare una mano alla persona che mi chiedeva aiuto era quando rimanevo fedele a questo sguardo sulla sua responsabilità. I peggiori errori li ho fatti quando mi sono lasciata prendere dalla piovra. Potrei fare un sacco di esempi, anzi magari una volta o l'altra con Dante potremmo scrivere alcune storie.

marco fantoni
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Messaggioda marco fantoni » gio mar 25, 2004 3:41 pm

All’inizio degli anni ’80 mi fu chiesto di far parte del Comitato della Caritas parrocchiale di Chiasso. Un gruppo guidato dal parroco con alcune altre persone in “età avanzata”; io non avevo ancora 20 anni. Ci si trovava regolarmente per verificare alcuni casi dove si potevano pagare delle fatture di persone che alla Caritas parrocchiale avevano fatto richiesta (a volte i casi si ripetevano ed erano le stesse persone che avevano già beneficiato di aiuti in precedenza). Per Natale poi si andava dalle persone “bisognose” e si consegnava loro il pacco con alimentari e l’augurio di Buon Natale. Gesto che faceva sicuramente piacere, soprattutto alle persone anziane che accoglievano sempre con gioia chi bussava alla porta. Non nascondo un certo imbarazzo quando mi trovavo davanti a persone a me ben conosciute e magari con solo qualche anno più di me.

Chiasso, cittadina di frontiera conosce(va) una realtà diversa da altre del Cantone, vista la frontiera e dunque anche l’arrivo di persone dall’Italia (che comunque non sempre si accontentavano di fermarsi lì) in cerca di aiuto (soldi) aumentava la casistica di persone che facevano riferimento alla Parrocchia. I sacerdoti erano giornalmente richiesti da persone che chiedevano (chiedono) soldi. La reazione era spesso quella di dare 5,10, 20… franchi sotto la pressione delle richieste, magari anche con storie commoventi. Questo provocava un “turismo” dall’Italia non indifferente in quanto si era sparsa la voce che un bravo sacerdote aiutava chi chiedeva.
Il mio qui non è un giudizio sul sacerdote che era di gran cuore che a lungo andare a chiesto aiuto per tale situazione, ma sul metodo.

Si arrivò poi nel 1989, con un nuovo parroco, a tentare di gestire questo problema. Per evitare che le persone si rivolgessero ai sacerdoti per scopi finanziari, si decise di aprire un Centro di accoglienza parrocchiale con lo scopo di dirottarvi quelle persone. Così fu, chi si presentava dai sacerdoti o in sagrestia, riceveva un biglietto con l’indicazione di rivolgersi al Centro.
Diverse furono le persone che si presentarono ed il lavoro per i volontari, non mancava. Bisognava però educare questi volontari, sempre disponibili a tante iniziative, ad affrontare in modo corretto le situazioni. Io fui nominato responsabile di questo Centro, pur non avendo esperienza nel campo, ma di fatto ero il più giovane ed in più lavoravo in banca, dunque si presumeva che di soldi qualcosa capissi.

All’inizio l’affluenza era molta, persone che avevano fame, persone che arrivavano da Bruxelles a cui avevano rubato tutti i documenti ed i soldi, persone che se non pagavano l’affitto le avrebbero buttate fuori di casa, persone che chiedevano un letto per passare la notte. Naturalmente i racconti delle persone erano raccontate in modo da convincere il più possibile il volontario che aveva il potere di donare una somma. I volontari nei casi dubbi mi chiamavano per sapere come agire.
Dopo un primo periodo di assestamento, dove anch’io cascai nella trappola e diedi dei soldi ad una donna per pagare l’affitto (la stessa la “incastrai” più tardi capendo che era una tossica) si continuò il lavoro con chiare direttive. A chi chiedeva soldi per mangiare, si dava loro un buono per magiare in un ristorante convenzionato. Chi aveva veramente fame lo utilizzava. Chi chiedeva soldi per l’affitto, se domiciliato a Chiasso lo si indirizzava all’uff. assistenza del Comune che eventualmente interveniva anche tramite il Soccorso d’inverno. Chi chiedeva un posto per dormire, per una notte, lo si accompagnava ad una pensione a buon prezzo della zona, ma non si ospitavano persone in strutture parrocchiali. Il costo era inferiore e la persona più libera. Il lavoro maggiore divenne così un coordinamento con l’uff. comunale di assistenza e dunque un lavoro d’informazione alle persone di passaggio su come muoversi all’interno di questi problemi. Si aveva così anche un buon lavoro a livello educativo per gli utenti, ma anche per i volontari.
Al Centro facevano capo anche persone che non chiedevano soldi ma solo un attimo di incontro di discussione. Spesso persone comunque con altri problemi.

Col passare del tempo i fruitori diminuirono perché capivano che di soldi non ne ricevevano se non in casi in collaborazione con il Comune dove si andava a fondo del problema.

Qui ne nasceva però un altro. Quello dei volontari che si sentivano .. un po’ frustrati, in quanto passavano lo loro ore al Centro senza che questo potesse accogliere qualcuno. E qui si introduce un altro tema, quello della motivazione del volontario, che potrebbe essere trattato in altri topic. Gli stessi volontari andarono però a garantire il funzionamento del Mercatino di Caritas Ticino che in quei momenti vedeva la sua apertura.
Il Centro finì poi per chiudere in quanto aveva raggiunto il suo scopo, quello di non esistere.

:? Ho voluto esporre questa esperienza di tipo locale, ma penso significativa per indicare che il bisogno lo si deve affrontare quando esiste e non crearlo, magari artificialmente, per poi trovarsi davanti a situazioni che portano i volontari alla frustrazione in quanto non possono aiutare. Ma questo è solo un aspetto del problema, neanche il principale, ma importante.

Il discorso del metodo è basilare. A CATI lo riscontriamo sia nel servizio sociale, sia nell’aiuto all’estero. Ritengo di non essere un esperto in sociologia o in materia di aiuto allo sviluppo, ma quando mi occupavo del Centro di Chiasso cercavo di usare da una parte quella poca esperienza che maturavo giorno dopo giorno e dall’altra il buon senso.

A CATI questa metodologia, quella della responsabilizzazione della persona, arriva da anni di esperienza, come dice la Dani.

Ma colui, volendo giustificarsi, disse a Gesù: E chi è il mio prossimo?
Gesù, replicando, disse: Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s'imbatté in ladroni i quali, spogliatolo e feritolo, se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Or, per caso, un sacerdote scendeva per quella stessa via; e veduto colui, passò oltre dal lato opposto. Così pure un levita, giunto a quel luogo e vedutolo, passò oltre dal lato opposto.
Ma un Samaritano che era in viaggio giunse presso a lui; e vedutolo, n'ebbe pietà; e accostatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra dell'olio e del vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo menò ad un albergo e si prese cura di lui.
E il giorno dopo, tratti fuori due denari, li diede all'oste e gli disse: Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, quando tornerò in su, te lo renderò.
Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s'imbatté ne' ladroni?
E quello rispose: Colui che gli usò misericordia. E Gesù gli disse: Va', e fa' tu il simigliante.


Se il discorso lo poniamo a livello di noi cattolici, possiamo far riferimento a questo estratto del vangelo di Luca (10 25-37). Bene davanti a questo si può rimanere spiazzati. Per rimanere allo spunto di Roby sull’allargamento dell’UE, se arriva a CATI una persona dall’Est e ti dice che non ha soldi, tu l’accogli e sei tentato di dargli quello che chiede. Se ti dice che non ha soldi, gli chiedi per cosa li vuole. Ti dice che vuole dormire e ti chiedi fino ad oggi cosa ha fatto. Non arrivi ad una soluzione. Gli dici allora che non si può far niente ed eventualmente lo mandi a qualche altro ente.
Potresti pagargli una camera in una pensione, ma poi il giorno dopo ti ritrovi da capo. Il discorso di fondo su questo esempio è capire come mai questa persona ha deciso di arrivare da noi senza un obiettivo chiaro, senza prospettiva, senza prima aver chiaro dove andava a parare.

Non vorrei sembrare blasfemo ma probabilmente il buon Samaritano dopo essersi preso cura dell’uomo di Gerusalemme avrebbe cercato di capire perché si era trovato in quella situazione e non avrebbe pagato in eterno l’oste per farlo dormire lì per sempre. Lo avrebbe riaccompagnato a casa sua.

Le persone che bussano alle nostre porte le accogliamo, magari tutte. Poi però è giusto capire perché bussano, perché sono arrivate fino a noi e con quali obiettivi. Mi sembra che gli articoli sulla nostra rivista, in modo particolare "l’intelligenza della carità" entrino bene nel merito della questione.

Se io accolgo una persona, la faccio dormire due o tre notti e poi la porto alla polizia per rimpatriarla, ho solo spostato di un paio di giorni il problema. In polizia potevamo andarci subito.
Se io pago l’affitto ad una persona per un mese ma dietro ha debiti a 4 zeri, non l’ho aiutata, l’ho illusa e deresponsabilizzata.

A volte, a costo di sembrare troppo duri, è forse più educativo che certe persone tocchino il fondo, per poi prendere la spinta per risalire, perché restando a metà non hanno più la possibilità di riprendersi.

Spero che questo mio romanzo, messo lì poco schematicamente e magari un po' ridondante (come dice la Dani :lol: ) possa essere compreso. Capisco che è difficile far passare questi messaggi. Me ne accorgo soprattutto con l’aiuto all’estero dove l’assistenzialismo è sempre lì pronto a saltarti addosso. Ma anche nella mentalità comune della gente, la nostra, ci vorranno anni di lavoro per far passare queste idee, che non hanno niente a che vedere con il non accogliere, anzi!
Grazie per la pazienza.

lucia
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Messaggioda lucia » gio mar 25, 2004 4:08 pm

chiarissimo

mi viene in mente mia figlia, che quest'estate andrà per qualche settimana con una compagna di scuola in Kenia; la famiglia della compagna ha trascorso alcuni anni in un villaggio dell'altopiano keniota, e ancora adesso spesso ritornano per proseguire un pezzetto di opera.
L'Ari e la sua amica andranno a costruire....un marciapiedi

già: non ho ovviamente abbastanza informazioni, ma so che pozzo, case, scuole, asilo, infermeria sono esistenti e funzionanti

un marciapiedi non è un bisogno indotto?

non replicate che bisogna vedere che tipo di strada passi dal villaggio, me lo sono detto anch'io

marco fantoni
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Messaggioda marco fantoni » gio mar 25, 2004 5:42 pm

Mi interessa capire, visto l'esempio se il caso citato del Kenya si riferisce ad opere in cui ha lavorato la famiglia di Alberto T.

lucia
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Messaggioda lucia » dom mar 28, 2004 3:10 pm

non credo, visto che i Toti erano per lo più a Nairobi e dintorni, e l'Ari andrà più a nord, sempre sull'altopiano, ma in vicinanza del lake Nakuru

roby noris
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Messaggioda roby noris » lun mar 29, 2004 2:47 pm

come contributo alla riflessione sul metodo di intervento sociale vi propongo una prima bozza di quello che dovrebbe essere un articolo per il prossimo numero della rivista Caritas Insieme. Gradite ovviamente osservazioni e suggerimenti che migliorino il livello di comprensione dell'articolo da pubblicare. Thnx

La trappola dell’assistenzialismo si può vincere

Il termine aiuto allo sviluppo rende bene l’idea di ciò che dovrebbe sempre essere la logica di tutti gli interventi a sostegno delle popolazioni dei paesi più poveri del pianeta. Ma purtoroppo non è sempre così. Anzi in moltissimi fra i piccoli e grandi interventi di aiuto è presente il germe dell’assistenzialismo che si esprime in forme talvolta sottili e ben mascherate da ideologia e giustificazioni contingenti. L’errore nasce da una convinzione errata che entrambi gli attori di questo scambio hanno anche se da osservatori completamente diversi. Chi sta bene e dà l’aiuto crede di dover prendere a carico chi sta peggio quasi sostituendosi a lui partendo dalla convinzione radicata che comunque le soluzioni a tutti i problemi e il modo di realizzarle è riservato a chi ha conoscenze e esperienza. Dall’altra parte chi ha bisogno di aiuto conferma questa visione accettando più o meno passivamente ciò che piove dal cielo convinto che solo altrove si sta bene, solo altrove ci sono possibilità di benessere, solo altrove ci sono le conoscenze e i mezzi per realizzare modelli di vita migliore. Evidentemente molti errori e pasticci di vario genere, oltre alla oggettiva difficoltà di andare controcorrente, favoriscono il rafforzarsi di questa visione catastrofica dell’aiuto che teoricamente viene continuamente negata e stigmatizzata ma che si adotta facilmente nella prassi mettendoci il cappello di “Aiuto allo sviluppo”. Non è spesso un problema di buona volontà, di solidarietà o di generosità, ma di modello adottato talvolta senza neppure rendersi conto del tipo di scelta adottata a priori.
Da anni nel piccolissimo impegno di Caritas Ticino per l’aiuto all’estero si cerca di riflettere su questa questione metodologica fondamentale anche perché ci siamo resi conto che non differisce affatto dal’impostazione di tutto l’intervento sociale locale. In altri termini il pericolo di cadere nella trappola dell’assistenzialismo lo si corre sia nell’aiuto all’estero con progetti in paesi lontani, sia nel sostenere situazione nostrane attraverso il nostro servizio sociale o con i programmi occupazionali per reinserire i disoccupati, anche se qui incontriamo una povertà decisamente relativa rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo. Ricostruire un percorso professionale alle nostre latitudini o un progetto di alfabetizzazione in Africa è più simile di quanto si creda. Il pericolo di credere di poter risolvere una situazione solo sulla base delle proprie conoscenze e valutazioni è sempre lo stesso sia che ci si muova per sostenere una famiglia a Lugano, sia che si stia promuovendo un progetto di accoglienza dei bambini di strada nel terzo mondo.
Sotenere e non sostituirsi, perché comunque non funzionerebbe mai. Fornire conoscenze e supporti finalizzati a una presa a carico del progetto da parte di chi deve ricostruire il proprio futuro. Essere accanto con disponibilità, sollecitando una presa di coscienza della responsabilità che chiunque dovrebbe avere sulla propria situazione anche quando crede di non possedere nulla e di dipendere completamente dagli altri. Il primo dramma che si incontra sia di fronte a un povero “nostrano” sia di fronte ai poveri del terzo mondo non è la mancanza di mezzi ma la mancanza di progettualità e di forza per credere di poter diventare primi attori del proprio progetto di rinascita.
Un piccolo esempio che ci conferma come sia possibile non cascare nella trappola descritta sopra è l’Alfaleria Lenca in Honduras messa in piedi da un’antropologa ticinese, Alessandra Foletti, che abbiamo potuto sostenere acqistando e rivendendo un container di prodotti di argilla. In sintesi il lavoro di questa ticinese è stato quello di riscoprire le tradizioni ancestrali della lavorazione dell’argilla secondo tecniche Maya assieme alle donne honduregne discendenti di questo mitico popolo, che riunite in coperative hanno sviluppato una linea artistica di produzione di oggetti decorativi di argilla. Le visite nei musei e i corsi per prepararsi a questa avventura, sono state fra le tappe significative del risveglio di una comunità che oggi conta più di 500 donne che col loro lavoro riescono piano piano a rendersi autosufficienti, a ridare dignità alla propria posizione nel contesto sociale, a nutrire i propri figli. Alessandra Foletti non ha applicato meccanicamente un modello occidentale su una produzione folcloristica di oggetti turistici, ma ha sostenuto una presa di coscienza delle proprie origini in donne semplici che hanno accettato una sfida culturale notevolissima. Con questo sono diventate artefici della propria rinascita e il ruolo essenziale dell’animatrice di questo progetto è stato ed è tuttora quello di accompagnare un processo senza impossessarsene determinandolo secondo uno schema proprio importato o peggio paracadutato. Senza mitizzare questa esperienza che certamente vive le sue difficoltà e potrebbe anche non rispondere sulla distanza tutte le aspettative, credo sia un esempio particolarmente interessante perché in quel microcosmo mi pare di intravedere la logica vincente di un’impostazione metodologica corretta. E questo è un patrimonio che vale più di ogni cosa per chi lo possiede, può sperimentarlo e testimonire agli altri che si può anche guardare al futuro in un altro modo. Mi piace pensare che l’inizio dei grandi cambiamenti siano delle esperienze pilota talvolta statisticamente irrilevanti che si propagano piano piano a macchia d’olio contro ogni logica prevaricatrice, diffondendo un pensiero “buono” che apre nuove prospettive all’umanità attraverso qualche significativo passo avanti.

marco fantoni
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Messaggioda marco fantoni » mar mar 30, 2004 10:10 pm

Mi rendo conto che per far passare questi messaggi bisogna scrivere molto ed in tutte le salse. Sono stato il primo a farlo in questo argomento, scrivendo quasi un romanzo e questo mi interroga sul fatto che forse un forum dovrebbe essere più dinamico e meno carico di testi lunghi. Non so se questo è possibile in quanto anch'io per esprimere il concetto (scusate se mi ripeto) mi sono dilungato.
Per questi temi forse non c'è alternativa, non so cosa ne pensano gli altri.

lucia
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Messaggioda lucia » mer mar 31, 2004 4:01 pm

Grazie sia a Marco che a Roby: la lunghezza delle vostre riflessioni non è esagerata, ma serve a chiarire i pensieri, senza ragionare a schemi fissi. In una società in cui la velocità di trasmissione va praticamente sempre a discapito della qualità, o dell'originalità, un contributo di una pagina intera, che se uno proprio fosse stanco dello schermo puô sempre stampare e leggere in poltrona, giova, tanto.

Dante Balbo
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Messaggioda Dante Balbo » ven nov 12, 2004 6:27 am

arrampicandomi fra le insidie dei links multipli sono arivato fino a qui e ho trovato pane per i miei denti.
Il problema del rapporto fra carità e verità, fra assistenzialismo e giustizia sociale ha continuato naturalmente a macinare nelle menti e nelle riviste di caritas, ma rimangono ancora alcune domande.
Noi siamo inseriti in unoo stato sociale forte, con un pensiero sostanzialmente del diritto di assistenza, che non si pone nemmeno il problema se e quando l'assistenza favorisca lo sviluppo della persona.
D'altra parte se uno straniero viene illuso che qui adesso il lavoro c'è, parte dalla sua città come hanno fatto i nostri emigrati per tanti anni senza un progetto preciso se non la sua disponibilità a fare qualsiasi lavoro, e arriva a caritas, noi possiamo risolvere il problema dal punto di vista del principio dicendo che non è assistendolo per qualche giorno o qualche ora che risolviamo il suo problema. Ma è davvero così semplice in pochi minuti o un'ora valutare le attese di una persona?
Possiamo noi in tutta coscienza stabilire che siccome la magioranza dei "poveri" che si presentano da noi sono poveri di progetualità, di fantasia e di imprenditorialità personale allora si può applicare a tutti?
La tentazione in questa direzione è forte, perché per esempio mi ricordo di un signore che era venuto a noi credo 4 o 5 anni fa e mi aveva raccontato una storia pietosa, chiedendomi un biglietto per andare non mi ricordo dove.
Poco tempo fa è ritornato e con una faccia di bronzo mi ha raccontato la stessa identica storia, spostando solo le date.
Per fortuna ricordavo il nome e avevamo preso nota di tutto la volta precedente, altrimenti magari avrei detto che in fondo andava aiutato e che la sua richiesta non era poi così staordinaria ed esagerata!
Nonostante questa esperienza la domanda rimane e la sua soluzione non è così evidente.
D.G.B.

Dani Noris
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Messaggioda Dani Noris » sab nov 13, 2004 2:55 pm

E’ vero non bastano pochi minuti né poche ore, neppure pochi giorni bastano per valutare le attese delle persone. Il problema non è la questione di quello che le persone si aspettano quando vengono da noi, ma quello che noi possiamo offrire. Quando una persona ha bisogno di soldi perché ogni volta che ha ricevuto lo stipendio se li è giocati sperando di riuscire ad arricchirsi e ha continuato a perdere per mesi, indebitandosi fino al collo e ci chiede di pagarle 6 mesi di affitto altrimenti la sfrattano, oppure un’altra ci domanda di fornirgli 300 franchi al mese perché il suo salario è pignorato in quanto non ha pagato gli alimenti ai figli e non gli viene lasciato il minimo vitale, o un’altra avendo speso per altro i soldi rimborsati dalla cassa malati invece che pagare le fatture dei medici e adesso non osa più andare dal suo curante (ma però sta proprio male e ne avrebbe bisogno) e ci chiede di pagare le fatture…. potrei continuare all’infinito con la descrizione di problemi reali che ci vengono presentati noi cosa possiamo fare? Guardiamo alla sua domanda immediata, ben sapendo che non è che la punta dell’iceberg o cerchiamo di aiutare la persona a fare un cammino di cambiamento del suo modo di porsi di fronte alla sua realtà in modo sano? Ma questo accompagnamento in che misura siamo in grado di farlo? Abbiamo le competenze necessarie? Abbiamo le risorse e il tempo? Molto spesso è no, per cui non possiamo far altro che suggerire alla persona di rivolgersi laddove queste competenze e queste risorse le può trovare. E se queste risorse non ci sono nemmeno altrove? Allora crediamo che facendo un lavoro approssimativo rispondendo con un aiuto finanziario immediato suppliamo alla mancanza di risorse? No, semplicemente interveniamo con un gesto che permetterà alla persona di tener duro qualche giorno, magari qualche settimana e si ritroverà nella stessa situazione. Probabilmente noi siamo più tranquilli perché abbiamo fatto quello che potevamo?
In pochi minuti non possiamo valutare le attese delle persone, ci vuole tempo. Come dicevo l’altro giorno a un nostro utente: lei conosce la sua storia da tanto tempo, io la sento per la prima volta, mi dia tempo per conoscerla e forse riuscirò a capire se e come possiamo aiutarla.


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