questione religiosa e inculturazione

questione religiosa e culturale che interroga la vecchia Europa con la sua paura di guardare alle sue radici cristiane
roby noris
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questione religiosa e inculturazione

Messaggioda roby noris » lun giu 14, 2004 10:41 am

Il titolo del topic (suggeritomi parzialmente da Dante Balbo) mi auguro abbia un effetto diverso dallo spaventare tutti coloro che ci danno un'occhiata. La questione, formulata in altri termini è stata oggetto della nostra ultima redazione di Caritas Insieme.
Dagli oroscopi alle sette ai ninnoli new age e a tutte le energie possibili e immaginabili con pizzichi di paranormale, passando un po' per l'oriente sfiorando buddismo e induismo.
La recente presa di posizione di Ratzinger sulla "Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani" è uno spunto di quelli su cui lavorare per un pezzo: il link è http://www.ratzinger.it/conferenze/minerva04.htm

Un altro pensiero che mi ha colpito (è di Carlo Doveri) riguarda il fatto che la cultura cristiana ha dovuto confrontarsi con quella greca e di conseguenza col principio di non contraddizione, mentre l'oriente non ha subito questo confronto severo e da qui la sua debolezza. Semplifico augurandomi che Carlo sviluppi quanto ci ha presentato in redazione.
E sempre lui mi ha segnalato l'editoriale del Corriere della Sera di sabato che vi riporto perché vale la pena di meditarci sopra. E poi spara a zero sulla Passione di Mel e quindi va benissimo :twisted: .


Corriere della Sera - sabato, 12 giugno, 2004, RELIGIONE Pag. 001.031

QUANDO SCOMPARE IL SENSO RELIGIOSO

Religioni all' ingrosso, un crepuscolo dell' anima
Le chiese si svuotano, le superstizioni incalzano

Magris Claudio

Nietzsche profetizzava, in un futuro che per noi è in parte già il presente, la morte di Dio, celebrandola - o costringendosi a celebrarla, nel suo lacerante rapporto di amore e odio col cristianesimo - come una liberazione. Non è detto che quella profezia debba necessariamente avverarsi, come invece si sono avverate e stanno ancora avverandosi tante altre sue intuizioni sull' evoluzione e sulle sconcertanti trasformazioni della società, della cultura, del mondo e dell' uomo stesso. L' «intramontato Nietzsche» - come lo definì l' anno scorso, in un nostro dialogo in pubblico a Trieste, il patriarca di Venezia, Angelo Scola - aiuta come nessun altro a capire la radicale metamorfosi della civiltà che stiamo vivendo. Sino a pochi anni fa la secolarizzazione appariva, almeno in Occidente, un processo inarrestabile; le religioni, le chiese, il senso stesso dell' oltre e del sacro sembravano relegati in soffitta ed erano guardati con supponente o irridente commiserazione. Ora invece molti proclamano - con soddisfazione o con preoccupazione - la riscossa del sentimento religioso e una crescente, quasi trionfalistica presenza della Chiesa Cattolica fra le masse e i giovani; pure l proselitismo islamico sembra attestare questo risveglio e bisogno di fede. È dubbio che le cose stiano effettivamente così. In Italia e anche in altri Paesi folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura cristiana e cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e perfino dei più classici passi e personaggi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una grave mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere. Non è un caso che perfino un grande regista come Bernardo Bertolucci, nel suo Piccolo Buddha così ricco di poesia, confonda l' Immacolata Concezione con la maternità verginale di Maria, mentre essa indica il suo essere concepita e nata senza macchia di peccato originale. Ma è ben più preoccupante, per esempio, che un film certo sapientemente ricco di effetti speciali come La passione di Cristo di Mel Gibson, che ahimè non è Bertolucci, sia stato osannato come una grande opera religiosa e perfino consigliato in quanto tale da molti sacerdoti, evidentemente candidi come colombe ma non anche astuti come serpenti, come esige invece il Vangelo, e dunque ingenuamente vittime della macchina pubblicitaria. Il film di Gibson può essere goduto come un intrattenimento di ottima fattura tecnica e di suggestiva spettacolarità, specie nelle scene di massa, ma è del tutto privo di senso religioso. C' è qualche momento poetico - Maria e la Maddalena che asciugano il sangue di Gesù sul terreno - ma non c' è Cristo, non lo si sente; i pochi frammenti che lo mostrano mentre tiene il sublime Sermone della Montagna o istituisce l' Eucarestia non dicono niente, non ne comunicano la persona, unica anche per chi non lo crede figlio di Dio. La notte del Getsemani, uno dei momenti abissali dell' umanità, è declassata ad avventura fantasy da Signore degli Anelli; non basta la truculenta flagellazione a rendere la tragedia della Passione. Senza le accuse di antisemitismo - immeritate e forse gradite per ragioni pubblicitarie - il film avrebbe avuto un' eco più misurata e onestamente conforme alla sua media levatura; che sia stato preso, anche da esponenti della chiesa, per una grande opera degna dello scandalo della Croce o per una valida propaganda, è indizio di una debole cultura cattolica. Se Atene piange, Sparta non ride. Luther, il film di Eric Till, è anch' esso - dichiaratamente, con onestà - un'opera di propaganda, in questo caso protestante, e altrettanto impari alla grande figura che vuol celebrare. Tecnicamente raffinato e possente in certe scene - la brulicante corrotta Roma papale delle indulgenze, verminosa e idolatrica Babilonia - il film illustra la nobiltà morale della rivolta di Lutero, ma edulcora la grandiosa personalità di quest' ultimo in una sdolcinata oleografia. Tace sui suoi aspetti più inquietanti - il cupo pessimismo antiumanistico, la negazione del libero arbitrio, le invettive contro gli ebrei, l' esaltazione del massacro dei contadini ribelli - e trasforma il grandissimo «cinghiale selvaggio» in un santino serafico e delicato o in un irenico ed ecumenico sacerdote postconciliare, quasi idealmente contrapposto allo spirito duramente preconciliare che Giovanni Miccoli ha visto nel film di Gibson. Se in quest'ultimo manca Cristo, in quello di Till manca Lutero: non c' è la profondità del suo mistico abbandono al terribile Deus absconditus, la sua sanguigna volgarità plebea così capace di poesia forte e brusca come la vita. Uno zuccheroso sentimentalismo - culminante nell'idillio stucchevole con Caterina Bora, la monaca che egli sposa - svigorisce la sua grandezza di riformatore, di rivoluzionario e di autocrate che rinnova la storia. Si tratta solo di due esempi di una diffusa (ir)religiosità all' ingrosso, sostanzialmente accomodante. I grandi spiriti religiosi - dalle Scritture a Kierkegaard, da Dostoevskij a Bernanos - sanno guardare (come i grandi materialisti quali Leopardi) con inesorabile lucidità nel male e nelle lacerazioni della vita e della storia, distinguendo laicamente ciò che è oggetto di fede da ciò che è dimostrabile razionalmente, il mistero dell' esistenza e del suo significato dai trucchi pseudo-esoterici da baraccone, molto più banali dei geniali giochi di prestigio del mago Houdini. Se la conoscenza religiosa va in crisi, non sono certo i culti idolatrici di reliquie miracolose né le Madonne di legno piangenti a poterle venire in aiuto. Sia la religione sia la scienza sono ora aggredite dall' indecente pacchiana orgia irrazionalistica, con tutto il suo ciarpame di oroscopi, parapsicologia, astrologia, occultismo, spiritismo e altre fumisterie. Il supermarket di satanismi, stregonerie e carnevali iniziatici è una truffa o autotruffa ai danni di consumatori privi d' intelligenza e di fantasia. Non è strano che possa condurre, come è accaduto, al delitto, suprema tentazione di stupidità e di violenza verso gli sprovveduti che si fanno incantare da babau di cartapesta sino al punto di diventare vittime e carnefici, anche di se stessi.

Dante Balbo
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Messaggioda Dante Balbo » mer giu 16, 2004 1:06 pm

sbarazzato il campo dalle illusioni razionaliste e positiviste, in cui il progresso avrebbe smantellato la superstizione che comprendeva anche le grandi religioni, il problema è diventato complesso. La disillusione ha mandato al macero anche la ragione, in un sommarsi di concause. quantitativamente la religiosità è in aumento, anche se non con i canoni ortodossi di adesione alle grandi chiese, ma nemmeno con il tracollo preconizzato da molti; d'altra parte, la sfiducia nelle capacità della scienza ufficiale di dare risposte ha portato molti a rivolgersi a dottrine alternative, che con la parola naturale, che si contrappone a chimico o meglio a scientifico, hanno investito con la potenza della globalizzazione Usa prima ed Europa poi; si aggiunga quello che un sociologo americano ha chiamato la cultura del narcisismo, cioè l'educazione di un consumatore irrazionale, bisognoso di risposte immediate, incapace di tollerare la frustrazione, illuso di controllare un prodotto soloo perché sull'etichetta c'è scritto scientificamente testato, e si otterrà il tipo giusto del religioso moderno, in cui la massima vincente è "funziona", cioè risponde realmente o no ma emotivamente, ai miei bisogni immediati.
Un libro interessante a questo proposito è stato pubblicato da Massimo Introvigne dal titoloo "dio è tornato". In esso si sviluppa l'idea che ladove vi sia un reale pluralismo religioso, dove il monopolio di una religione non sia sostenuto dallo Stato, l'adesione religiosa tenda ad aumentare per stabilizzarsi intorno al 65%, che potrebbe essere il tetto massimo del mercato.
Il libro, anche se con intenzioni divulgative, è un saggio vero e proprio, con centinaia di citazioni scientifiche, sviluppato soprattutto in polemica con i razionalisti di ogni specie, teologi compresi, per difendere il principio secondo cui non è la domanda di religione a fluttuare, ma l'offerta di prodotti appetibili. quando il pluralismo fa emergere l'uno o l'altro movimento religioso, anche i concorrenti, si mobilitano. Un caso tipico è quello dell'America latina, in cui una avanzata strepitosa della Chiesa Evangelica ha rimesso in moto la missionarietà cattolica.
L'Islanda, un paese con un bassissimo numero di praticanti, 2%, scopre di avere un numeoro altissimo di credenti, non diverso da quello espresso negli Stati Uniti.
Capovolgendo la domanda secondo cui in america si troverebbe un'eccezione alla teoria della secolarizzazione, Introvigne segnala che in realtà il paradosso è quello europeo in cui a moltissimi credenti non corrispondono praticanti.
Il sociologo sottolinea che questo si accorda con la teoria della limitazione dell'offerta religiosa, perché in europa solo molto recentemente le grandi Chiese si sono svincolate dalla protezione e controllo statali, come alcune piccole Congregazioni hanno avuto via libera.
Insomma, oltre al punto di vista filosofico, c'è un sano principio di economia di mercato da consiedrare nel percorso delle fedi e questo non svilisce né oscura l'ottica filosofica o teologica. vi sono fedi più ragionevoli di altre, ma oggi conta molto anche il modo in cui si "vendono".
D.G.B.

Dante Balbo
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Messaggioda Dante Balbo » mer giu 16, 2004 4:28 pm

Tratto dal sito per la filosofia dell’Unità la testata dell’omonimo giornale italiano.
Purtroppo non riesco a risalire al sito perché ho salvato la pagina come documento html.
qui alla questione della perdita del senso religioso e non solo di quello risponde un teorico marxista, (però intelligente, lasciatemelo dire per una volta a qualcun altro che non abbia un handicap visibile e visivo).

15 SETTEMBRE 2002

MARIO PERNIOLA
La battaglia per la bellezza

Quella del bello è oggi una categoria più popolare della verità e della virtù e il narcisismo e diventato una patologia sociale. Ecco perché lottare per
una estetica e non per la cosmetica

La bellezza pare a prima vista il concetto più adatto per gettare un ponte tra l'atmosfera cosmetico-ricreativa in cui sono immerse le moltitudini dei paesi
ricchi e la tradizione culturale. In altre parole, la bellezza sembra più «popolare», più connessa con il sentire delle masse di quanto non sia la verità
o la virtù. Infatti ben pochi si curano della coerenza dei loro pensieri e ancor meno della purezza delle loro azioni, ma tantissimi si interrogano sulla
avvenenza del loro volto e del loro corpo, affollano palestre, comprano cosmetici, intraprendono diete, ricorrono addirittura alla chirurgia plastica per
diventare più belli ed attraenti. La bellezza sembra in grado di fornire, per così dire, un aggancio tra le masse e il sapere.

Tuttavia, che cosa ha che vedere tutta questa infatuazione collettiva con la filosofia? e più specificamente con la plurimillenaria riflessione filosofica
intorno alla nozione di bellezza? Mi piacerebbe poter affermare che il libro di
Santayana
Il senso della bellezza va a ruba (mentre in realtà non è acquistato nemmeno dalle biblioteche di filosofia), oppure che Benedetto
Croce
sta al vertice delle classifiche degli autori più venduti (mentre la riedizione delle sue opere incontra tante difficoltà). Ma come tutti sanno al culto
della bellezza personale non corrisponde affatto non dico un interrogativo, ma nemmeno una curiosità intorno a che cos'è il bello: le moltitudini estetizzanti
ritengono di saper benissimo come devono fare per diventare più belle e di non aver veramente niente da imparare di utile dai filosofi su questo argomento.
Dal loro punto di vista, non si può dire che abbiano torto.

Fatto sta che il rapporto tra la nozione di bellezza e le moltitudini estetizzanti non è così diretto ed immediato come vorremmo. Esso passa attraverso
una patologia sociale, ben nota e studiata da decenni, che si chiama narcisismo. Questa malattia psichica ha per l'affettività contemporanea un'importanza
paragonabile a quella dell'isteria e delle nevrosi al tempo di Freud. Il suo aspetto caratteristico è il primato dell'immagine sulla realtà in tutte le
pratiche della comunicazione privata e pubblica: è chiaro che a partire dal momento in cui l'elaborazione dell'immagine e il suo controllo diventa la preoccupazione
fondamentale, cade ogni possibilità di astrazione e di pensiero critico. Infatti il narcisismo non è affatto amore di sé: lo spostamento verso la propria
immagine si effettua al prezzo di un totale annullamento della vita individuale e della sua realtà. Come ha mostrato Christopher
Lasch
nel suo libro La cultura del narcisismo (Bompiani, Milano, 2001), che riprende da un punto di vista sociologico le tesi di psicoanalisti come Heinz
Kohut
e Alexander
Lowen,
il narcisismo contemporaneo implica una completa negazione della propria identità affettiva. L'individuo narcisistico è incapace di provare emozioni intense
e personali. La sua vita affettiva è vuota. L'unica possibilità di trovare un vero interesse alla vita - impossibilità che caratterizza il modo di essere
narcisistico - è proprio l'opposto dell'impegno personale che caratterizza l'individualismo moderno. L'amplificazione iperbolica dell'immagine dell'io
a detrimento della sua realtà conduce così ad un totale appiattimento sui modelli proposti dalla pubblicità, dalla televisione e dalla moda, che ha assunto
nel corso degli ultimi tempi l'aspetto di una catastrofe culturale, politica e sociale, in cui sono coinvolte l'arte e la scienza, non meno della filosofia
e della religione. Nei confronti delle patologia psico-sociali di stampo oscurantistico l'estetica marxista ha fornito due differente diagnosi, rispettivamente
rappresentate dal filosofo ungherese Gyorgy
Lukacs
e da Antonio
Gramsci.
Il primo fu decisamente più ottimista del secondo nel valutare l'effetto della propaganda, della pubblicità e in genere dell'intrattenimento edonistico-ricreativo.
Infatti secondo Lukacs, solo l'arte costituisce la massima potenza culturale, l'unica capace di esercitare un'influenza profonda e duratura: essa rivolge
al pubblico un'ingiunzione che lo riguarda direttamente e lo invita perentoriamente a rendere la sua vita più ricca e significante, mentre la comunicazione
di massa si distingue per la limitatezza e la provvisorietà del suo influsso.

Gramsci invece, più pessimisticamente, ritenne che la degradazione culturale e l'oscurantismo che l'accompagna, non debbano essere sottovalutati: per esempio
il romanzo d'appendice, il gusto melodrammatico, l'oppiomania fantasiosa (insomma gli equivalenti nel suo tempo del narcisismo mass-mediatico odierno)
esercitino un'influenza molto maggiore dei prodotti culturali in qualche modo connessi con le istituzioni. Perciò il grande insegnamento di Gramsci è
consistito nell'invito a cercare sempre un aggancio tra il sentire per quanto degradato, distorto e alterato delle moltitudini da un lato e la teoria critica
della società dall'altro. Da questa posizione gramsciana è derivata quell'attenzione ai fenomeni culturali di massa che ha caratterizzato il marxismo
italiano.

La grande questione oggi è: esiste ancora la possibilità di questo aggancio? a partire da quale momento lo studio e la sollecitudine verso le espressioni
popolari si trasforma nell'apologia dell'ultima scemenza comparsa sulla scena dei media? perché l'impegno democratico si trasforma tanto spesso in oscurantismo
populistico? in quale punto dell'organizzazione culturale cessa il riscatto teorico e comincia la resa agli indici di ascolto e al mercato? Certamente
non si può imputare a Gramsci l'incongruenza e la sconclusionatezza di tanti sedicenti operatori culturali di oggi. Gramsci non ha mai pensato che l'intellettuale
«organico» debba favorire la vanità o essere agganciato alle idiozie.

La difficoltà di trovare oggi un aggancio credibile consiste probabilmente nel fatto che non è più negli interessi del capitalismo coinvolgere tutti in
un processo di miglioramento e di promozione intellettuale e materiale. Nel quadro della new economy è dubbio che sia ancora necessario o opportuno garantire
all'intera società un medio livello di istruzione e di sapere critico. La decadenza della qualità dell'insegnamento fornita dal sistema scolastico ed
universitario quasi in ogni parte del mondo, unita al trionfo della credulità e della superstizione, mostra che il movimento di diffusione del sapere messo
in moto dall'illuminismo nel XVII secolo conosce una battuta d'arresto. Il fatto è che per l'industria dell'intrattenimento, la trasmissione su larga scala
del patrimonio culturale dell'Occidente, che ha le sue massime realizzazioni nell'arte, nella scienza e nella filosofia, è qualcosa di troppo dispendioso,

perché presuppone appunto la formazione (nel senso classico dì Bildung) di un pubblico capace di comprenderlo e di apprezzarlo. Si procede perciò in modo
molto più spedito e redditizio trasformando le mostre d'arte in luna park, le conquiste della conoscenza in fantascienza, il pensiero critico in edificazione
new age, le scuole e le università in burocrazie senza energia emozionale, per non parlare del resto. In altre parole, la possibilità dell'aggancio derivava
dal fatto che il mantenimento e lo sviluppo della cultura e dell'educazione era un aspetto essenziale dei progetto capitalistico.

Tendo perciò a credere che una politica culturale progressista passi oggi non attraverso la ricerca di un aggancio che si regge irrimediabilmente sull'equivoco
e sul fraintendimento, bensì attraverso operazioni di sganciamento dall'atmosfera cosmetico-ricreativa e oscurantista in cui siamo immersi. In altre parole
se vogliamo parlare di bellezza, deve essere chiaro che impieghiamo questa parola in un senso che non ha niente a che fare con le palestre, con le diete,
con i concorsi di Miss Italia, con tutta la sdolcinatezza e la leziosità su cui si regge oggi la ricerca di un consenso plebiscitario.
(continua) sul sito
D.G.B.

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Messaggioda lucia » mer giu 16, 2004 4:48 pm

che strana cosa, questa schizofrenia dei nostri giorni! Mai come adesso la avvenenza fisica ha avuto così strabordante importanza ( io lotto tutti i giorni con bellissime, normalissime donne gravide, che mi chiedono se possano o no utilizzare le creme anticellulite) e nello stesso tempo, mai vi è stata percentuale più alta di persone che donano il proprio tempo ad altri, gratuitamente, nelle nostre popolazioni.
Da una parte l'io fisico idolo e sovrano, dall'altra una generosità forse non intelligente, ma certamente presente

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Mario Perniola sulla bellezza

Messaggioda roby noris » gio giu 17, 2004 5:03 am

questo Mario Perniola è davvero affascinate nella sua lettura della tragedia del bello in termini di percorso politico. Mi piacerebbe sentirlo a confronto con qualcuno che faccia la stessa lettura tragica della non cultura di massa dominante da un profilo diciamo più filosofico e esistenziale. Mi interesserebbe vedere ad esempio quanto la scelta individuale, e non solo collettiva della lettura di Gramsci (se la colgo nel senso giusto), per la mediocrità e il disimpegno siano legate alla continua contrapposizione fra l'anelito per il bello come espressione del desiderio più profondo e la scelta preferenziale per il non lavoro quale illusione di un percorso gratuito disponibile schiacciando un telecomando. Mi viene in mente Requiem for a dream. Se la capacità di aspirare al bello nasce dalla possibilità di riconoscerlo e questa è la caratteristica forse più straordinaria che definisce l'essere umano, allora paradossalmente sta nell'altra caratteristica fondante dell'essere umano, il libero arbitrio, la possibilità di annientare la sua capacità percettiva del bello. Un gatto non può cogliere la bellezza di un tramonto, di una sequenza di Eyes Wide Shut, di una pagina di Mozart, e non può scegliere di accontentarsi di un surrogato del bello.
Scegliere di scrivere e/o leggere banalità, ascoltare o cantare porcherie immonde da un punto di vista musicale, accontentarsi di mistificazioni della verità o di superficiali letture della realtà, scegliere costantemente per la mediocrità è possibile solo agli umani. Tragedia individuale e collettiva, quale rapporto fra libertà individuale e dinamiche collettive?

Perniola non passa da Lugano che facciamo uno studio di Caritas Insieme TV?

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Messaggioda roby noris » mer giu 23, 2004 11:56 am

Carlo Doveri ci manda su posta elettronica di Caritas Ticino "a proposito dell'articolo di Claudio Magris sul Corriere della sera del 12 giugno" un articolo recente di Giacomo B. Contri che vi propongo.

WEBLOG
BED & BOARD
L' idea di giornalismo freudiano è della prima ora: si tratta sempre e comunque di vita giornaliera.

MY SOFT CHRIST / MICHRISTSOFT

L’uomo-cyborg: il docetismo moderno

Homo sive natura


Contenuti

Passione senza pensiero, o il Docetismo in salus-salute-salvezza.
Freud, Lacan, Foucault, Spinoza, Cristo.
Pensiero, sovranità, norma, desiderio, comando, donna, Madonna, perfidia, città, universo…:
questo lemmario può continuare senza limiti già noti.
Spunto: “La passione di Cristo” secondo Mel Gibson.


Salus



Il film di Gibson è solo uno spunto per il concetto di salus-salute.



Non possiamo né vogliamo fare alcuna concessione alla scissione tra salvezza e salute psichica come conti separati. Di schizofrenici ne abbiamo già tanti. Un Dio schizofrenico - oppure paranoico, isterico, ossessivo, ossia puro comando, e dunque senza soluzione per la psicopatologia - non potrebbe interessarci. E in fondo i secoli non gli hanno reso un grande servizio, parlandoci dell’angoscia eterna di un Dio oscillante nella noia di un monotono “mar dell’essere” (per primo il filosofico mare Egeo ossia greco).



Le nostre considerazioni sono logiche, non teo-logiche.
Quanto alla distinzione tra logico e psico-logico, abbiamo motivo per considerare tale partizione sistematica come uno dei danni prodotti nella modernità otto-novecentesca sulla scorta di un errore più antico. Per questo abbiamo introdotto il concetto di un “sillogismo freudiano” in amichevole composizione - non identità - con il sillogismo aristotelico. La coppia psicologia/logica, nonché un errore, è perfino una malvagità.



E’ sul concetto di salute la guerra dei secoli, anche filosofica. Esso ricopre inconfessatamente l’intera storia del pensiero. Lo comprendeva Freud con il sottrarre la salus agli specialisti di ogni specie, promuovendo la competenza individuale in essa: tutti genericisti - non specialisti - della salute. Nella salute si tratta di genus, non di species. Si è finito per abolire sia gender che sex. Abolizionismo assoluto: sempre l’“assoluto” benché sull’altra sponda (è la psicosi pura, come insegniamo nel Corso di quest’anno, con speaker perverso).
L’attacco è al genere Umano; il sesso è il punto di applicazione della leva della catapulta.
Non per questo Freud rifiutava la medicina, né attaccava i preti e le religioni: ma rifiutava quella storica e moderna divisione del lavoro che divide il concetto unitario e univoco di salus, assegnando quella del corpo ai medici e quella dello spirito ai preti.


Credenti o non credenti, comunque dobbiamo rifarci le idee su “Dio”, perché riguardano noi (Feuerbach). Se Dio badasse anzitutto a se stesso, anche per una salus che poi riguarderebbe anche noi, avremmo l’unica ragione che potrebbe rendercelo sin-patico, con-veniente, ossia affidabile. Vedremo se lo è. Imputiamolo, come insegna la Bibbia: infatti se siamo grati a Dio è per averci liberati dalla schiavitù dell’Egitto, ossia perché lo imputiamo.



Cyborg



Il film di Gibson è il più avanzato nel suo genere.
Intendo quel genere anni ’50 con cui il cinema hollywoodiano ha assunto l’appalto mondiale del catechismo cristiano (Ben Hur, La tunica, Quo vadis eccetera). L’esempio dell’appalto è stato poi seguito da altri (in Italia Pasolini per primo). Ora abbiamo Gibson.
Le dispute suscitate dalle peculiari scelte del regista qui non interessano: che se ne chiacchieri al Maurizio Costanzo Show.
Oggi Cristo non lo crocifiggerebbero più, lo porterebbero al suddetto Show: dalla morte in croce forse poteva ancora risorgere, da questo no.



Interessa invece la questione generale, di interesse per tutti, credenti e non credenti, quella della salute: che tratto come coincidente, nell’opposizione, con quella protocristiana dell’eresia detta “docetismo”, la prima e principale se non, logicamente, l’unica.
Grazie a un certo sottoprodotto del film di Gibson, oggi tutti sanno che cosa è il docetismo: questo film lo ha insegnato al mondo più di un Corso universitario con i migliori teologi. Mi riferisco alla fotografia sconcia e sghignazzante del busto di Cristo-cyborg riprodotta qui in figura 1.
Cristo, dicevano i docetisti, è benissimo rappresentato da questa immagine: ossia a Dio non è mai venuta in mente un’idea tanto bizzarra come quella di incarnarsi, e meno che mai di risorgere come uomo. Cristo era solo una sembianza d’uomo, in francese un semblant, un’illusione ottica, un ologramma, un artefatto visionario alla Mandrake, uno stuntman più stunt che man, o appunto un cyborg.
E perché? Per un’operazione squisitamente pedagogica dall’“alto”: il programma di mettere qualcosa del “divino” - ma che cos’è? -, o junghianamente del “numinoso” - ma che cos’è? -, in testa a questi inconsapevoli già cyborg che sono gli uomini. Uomini-macchine-animali-minerali, tutt’uno. Anzi Uno, l’Uno neoplatonico.
Che cosa è un cyborg? E’ un dispositivo materiale disposto in modo da ricevere dei comandi da un dispositivo logico, un programma senza pensiero. Un organismo innervato da un programma che fa da causa del suo moto, del suo desiderio, del suo pensiero. Corrisponde al detto: “Non è vero niente”. Sembianza, finta, in francese semblant (faire semblant significa fare finta). Ontologia comandante pedagogia (poi Kant: etica comandante pedagogia), l’oscenità clericale dell’Utopia platonica.
Di fronte a questa eresia i cristiani di allora (1° e 2° secolo) non si sono resi bene conto di che cosa avevano per le mani, e hanno creduto che si trattasse solo di religione e di eresia teologica. Ma no!, il docetismo è cultura dominante soprattutto oggi, a prescindere da Cristo (ma già allora). Il docetismo riguarda e riguardava non Dio ma l’uomo.



Foucault, Haraway, Spinoza, Lacan. E Freud



L’antropo-docetista più noto oggi è Michel Foucault, con la sua negazione non di Dio ma dell’uomo (già Jacques Lacan lo osservava).
Alcune citazioni. Una prima di Foucault, che lì per lì non sembra molto aggressiva, affilata:



“A mio parere, dobbiamo considerare la battaglia per i diritti di gay e lesbiche come una tappa, che non può rappresentare il momento finale. Questo per due motivi: perché un diritto, nella realtà dei fatti, è molto più legato agli atteggiamenti, agli schemi di comportamento, che a formule legali. Ci può essere discriminazione verso gli omosessuali, anche se la legge vietasse tali discriminazioni. E’ dunque necessario battersi per dare spazio a stili di vita omosessuali, a scelte di esistenza nelle quali le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso siano importanti. Non è sufficiente tollerare, all’interno di uno stile di vita più generale, la possibilità di fare l’amore con qualcuno dello stesso sesso, come componente in più o supplemento. Il fatto di fare l’amore con una persona dello stesso sesso può implicare, in modo del tutto naturale, una serie di scelte, una serie di altri valori e scelte, per le quali ancora non esistono possibilità concrete di realizzazione. Non si tratta solamente di integrare questa piccola pratica bizzarra del fare l’amore con qualcuno del proprio sesso, in contesti culturali preesistenti; bisogna creare forme culturali”.



Un’altra citazione, di Antonio Negri, Impero, 2003:
“L’antiumanesimo, che rappresenta una progetto così decisivo per Foucault e Althusser negli anni ’60, può essere ricollegato alla battaglia combattuta da Spinoza trecento anni prima. Spinoza denunciava qualsiasi concezione dell’umanità come imperium in imperio. In altri termini egli rifiutava di attribuire alla natura umana una legge diversa dalle leggi che riguardano la totalità della natura. Ai giorni nostri Donna Haraway porta avanti il progetto di Spinoza, nel momento in cui insiste sulla necessità di abbattere le barriere che abbiamo eretto tra l’umano, l’animale e la macchina.”



Un’altra citazione, di Donna J. Haraway, Docente di Storia della coscienza all’Università della California:
Vi si dice che le donne devono elaborare un “sé-cyborg: esso non proviene da un’unità originaria, è una figura che sta ai confini tra la macchina, l’uomo, l’animale, il minerale, quindi tra l’organico e l’inorganico; esso, ibrido organico e tecnologico, supera ogni definizione di univocità, compresa la determinazione di genere, si pone aldilà della bisessualità; il suo è un mondo post-genere.”



Ma la formula migliore del docetismo è stata data da J. Lacan nel titolo del suo Seminario del 1971: “D’un discours qui ne serait pas du semblant” ossia: esiste un discorso che non dipende da un comando? (un cyborg va a comandi, e se sembra un uomo è una finta d’uomo - semblant - comandata). Cyborg significa un puro pre-testo per il comando. Ancora, Lacan caratterizza il docetismo quando scrive che “il n’ y a que du fonctionnement, c’è solo funzionamento” cioè comando o imperativo (algoritmi, programmi). Si ricorderà che Lacan è stato l’esploratore del “Discours du Maître, Padrone”, e come esplorazione aggiornata dal Padrone antico al Padrone moderno, ossia funzionamento, non sovranità, homo sive natura. Informo che questa espressione è stata coniata da Maria Delia Contri, secondo l’idea che lo spinoziano “Deus sive natura”, ma in fondo già suareziano, era solo un ponteggio filosofico per arrivare a quello.



Bisogna distinguere Lacan da Foucault: il secondo è stato maestro, militante e stratega di docetismo (in simbiosi con Spinoza), mentre il primo è stato maestro in docetismo. Il merito di Lacan con quel titolo è di avere asserito che non c’è altra questione, e vera questione, che questa, ossia se esista solo comando, finta, semblant, causa. Ossia se esista non desiderio ma solo causa del desiderio; se esista non pensiero ma solo causa del pensiero, ossia appunto comando. Valeva dunque la spesa di averlo come maestro (e analista). Ossia - con parola freudiana - se c’è o non c’è salvezza dal superio “osceno e feroce” (ancora J. Lacan), che quest’anno chiamiamo “teoria presupposta”.



Freud non è stato maestro né di né in docetismo, anzi ha interrotto la crescente deriva docetista della modernità, anche dei cristiani, a partire dal ‘500. Contrariamente al “non è vero niente” della sembianza, ha esteso la questione della verità a campi da cui era esiliata. E’ stato l’unico pensatore della modernità che abbia asserito che l’uomo è quel corpo della natura la cui legge di moto non è comando o imperativo (animale, macchina), bensì è autonoma e positiva, umana e solo umana: pensiero e legge di moto sono il medesimo concetto. Lui l’ha chiamata “pulsione”, noi la chiamiamo pensiero di natura, pensiero individuale e autonomo de natura. Bisogna riconoscere che Freud è stato l’unico pensatore che abbia definito l’uomo come uomo. Il confuso concetto di “anima” invece è sempre stato disponibile a tutti i partiti, anzitutto a quello docetista. Freud ha anche scoperto che all’autonomo pensiero-legge di moto può opporsi una causalità sovra-posta, imperativa, da lui denominata “superio”.



La questione del docetismo posta al pensiero di Cristo



Poniamo al pensiero di Cristo stesso la questione se sia docetista, finzione d’uomo, du semblant. Ossia se siamo di fronte a due millenni di un’operazione pedagogico-religiosa che ha preso le mosse da un’ontologia o un’etica. La questione è logica, non teo-logica. Procedo come segue.



I cristiani si sono persi nella deduzione di attributi anziché privilegiare l’osservazione di connotati suscettibili di individuare un singolo. Intendo quelli attestati in quei quattro famosi libretti.
Il passaggio dagli attributi ai connotati, invece dell’inverso, decide la questione. Infatti dopo l’asserita “resurrezione”, questa è stata sostenuta come un articolo di fede la cui unica parvenza di razionalità risultava per deduzione dall’attributo “onnipotenza”. In generale è andata crescendo la tendenza a risolvere i connotati nella loro deduzione dagli attributi.
L’operazione attribuzionista più estrema è stata quella, all’inizio del secondo millennio, di Anselmo d’Aosta che ha tutto fondato sulla teoria della “grandezza” (“Dio è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande”: una Teoria la resa alla quale non esito a qualificare psicotica).
Tra l’altro non era un’idea originale: la “grandezza” era già stato il colpo di genio di Maometto circa quattro secoli prima. Iniziava con Anselmo l’era dell’islamismo in partibus christianorum, indipendentemente dal valore logico - vedi le obiezioni di Tommaso e Kant - della suddetta prova detta “ontologica” (a Maometto non interessava alcuna “prova”).



Sappiamo che gli attributi - onnipotenza, onniscienza - sarebbero comunque impotenti nei riguardi della psicopatologia con la sua indistruttibilità, più ancora dell’anello del Signore degli anelli, alla cui (dis)soluzione è bastato un banale vulcano nella sua “grandezza”, potenza di fuoco. La psicopatologia è il regno anzi l’imperium del semblant. Non c’è guarigione comandata, neppure per miracolo. Proprio la credenza cattolica più ortodossa non sosterrebbe che a Lourdes Dio miracola l’isteria (ricordo la pertinente battuta di Woody Allen). Senza pensabilità della salute e della guarigione dalla patologia - ossia uomo non cyborg -, un Dio sia pure esistente, onnipotente, onnisciente eccetera, sarebbe impotente e ignorante. Che resterebbe della sua esistenza? E che cosa sarebbe il suo “Paradiso”?: un manicomio generalizzato ossia l’Inferno. Un “Regno” governabile solo a condizione di drogare tutti in una visio stuporosa.



Oltretutto, a esaminarlo bene l’uomo cyborg non è l’uomo-natura: è l’uomo patologico, comandato (“superio”). Il cyborg, o l’homo sive natura, è non una definizione né una scoperta bensì un’operazione: una terapia conservativa dello status quo ante. Più che conservativa, reazionaria: il rilancio in forme “nuove” (è la variabilità, molto limitata, della perversione) della patologia anteriore.



La risposta di Cristo riguarda sia gender (1) che sex (2):
(1) nel mio lavoro sul pensiero di Cristo, di cui sono cultore come lo sono di quello di Freud, ho ritenuto di poterne isolare i seguenti connotati positivi (che significa: posti). Essi sono (ho sviluppato questo punto in altra sede):
salute psichica, innocenza, non ingenuità, non contraddizione, autonomia di pensiero-desiderio (del corpo), partnership, modernità, univocità, universalità.
Un pensiero per cui c’è soluzione, cioè conclusione logica e conclusione reale o soddisfazione
Tali connotati costituiscono affidabilità, che è esclusa nel cyborg, nel semblant, nel “non è vero niente” come unica “verità”. Nel pensiero di Cristo, e nel pensiero di natura, la verità è imputativa.
(2) quanto ai sessi, tale pensiero riasserisce senza esitare la civiltà del rapporto uomo e donna, e rifiuta quella dell’“eunuco” ossia ancora il cyborg. Che, se ha sesso, lo ha solo come lo hanno le bambole “sessuate”: nelle quali non c’è sesso bensì sessuazione (quest’ultima parola è di J. Lacan: sexuation). Ho perso il conto del numero di sessi inventati negli ultimi tempi.
Questo pensiero non manca neppure di menzionare per primo quella “castrazione” che molti secoli dopo Freud proporrà non come minaccia o perdita bensi come soluzione. Ciò in Analisi terminabile e interminabile, cap. 8, in cui Freud addita la cosiddetta “impostazione passiva” o “femminile” come soluzione - principio di non obiezione di principio all’altro - anche per l’uomo. Mi riferisco al passaggio evangelico in cui, dopo avere sostenuto uomo e donna e condannato la produzione delle prime due specie di eunuchi, ne configura una terza specie come condizione di successo o soddisfazione (biblicamente chiamata “regno”), con la clausola “Chi ha orecchi per intendere…”
Naturalmente tutto ciò è discutibile ma alla lettera - Cristo discute sempre -, ossia considerato degno e logicamente suscettibile di discussione. Solo i pazzi e gli inaffidabili non discutono e non si rendono discutibili.



Così posta la costituzione di almeno un uomo (nel caso, Cristo: come si vede non mi occupo di fede, teologia, e neppure delle sottigliezze sulla storicità dei Vangeli), quei quattro libretti rincarano l’atto del porla, per mezzo dell’asserzione (intelligibile per credente e non credente) di quella sua desiderabilità interminabile che al credente è proposta nella resurrezione. Questa afferma infatti tale desiderabilità - “Dio” si tiene come uomo perché sta bene da uomo, ne assume in proprio il principio di piacere, la legge di moto del corpo per la soddisfazione nell’universo dei corpi -, perfino unita all’asserzione certa che non ricomincerà tutto da capo (quella vecchia storia di peccato originale, o forse meglio ereditario come si dice in tedesco, Erbsűnde).
In questa prospettiva la narrazione della morte di Cristo funge da mezzo di contrasto per il sorgere - nel ri-sorgere - dell’asserzione. E la passione non risulta più, come nell’usuale ermeneutica penalistica, come pena commisurata al peccato (sia pure altrui), ma come segno di una lotta in corso (“la spada non la pace”). Il senso dell’insieme non sarebbe alterato – salvo il rispetto delle Scritture - se fosse stato giustiziato con una rapida “pulita” decapitazione.
L’affermazione principale è dunque che Cristo ha sì lavorato anche per gli altri, ma per il fatto di avere lavorato per se stesso, per il proprio profitto o la propria salus: in quanto non c’è salute-soddisfazione di uno senza la salute-soddisfazione di tutti (Lacan: “Non potrebbe esserci soddisfazione di uno senza la soddisfazione di tutti”). Ha riscattato-guadagnato gli uomini perché si è guadagnato come uomo.
Nessun “amore” astratto per l’umanità, nessun donativo assoluto - ab-solutus -, senza proprio vantaggio. E’ Cristo stesso a giocare d’anticipo nell’insegnare a diffidare di chi porta doni senza suo profitto, spassionatamente, disinteressatamente: in fondo “Timeo Danaos et dona ferentes” è anche un suo pensiero (i “Danai” sono i Greci, e il pensiero di Cristo non è grecizzante o ellenizzante). Lo dice in modo patente la parabola dei talenti, o il giudizio che “l’albero si giudica dai frutti”.
Cristo significa dunque una presa di posizione, un intervento colto nel dibattito sul singolo e sulla Civiltà. Un intervento subito disseminato - per scegliere una parola dal suo stesso contesto - di “zizzania” importata da contesti filosofici e religiosi: la storia del cristianesimo è anche la storia della resistenza a pensare il pensiero di Cristo come pensiero, alla stregua di altri e dunque paragonabile.
Il suo pensiero è quello di un discours qui n’est pas du semblant.



Dovevano passare molti secoli perché nel dibattito su singolo e civiltà un altro pensatore, Freud, reintroducesse in termini inediti la pensabilità dell’homo come homo, per avere introdotto il concetto di una legge di moto di certi e non altri corpi della natura, una legge identica al pensiero non causato, autonomo, di tali corpi (lui la chiamava “pulsione”, noi l’abbiamo ricapitolata nel concetto di “pensiero di natura”, un pensiero che fa da legge non naturale nella natura). Possiamo parlare dell’ecce homo di Freud non credente. E’ il pensiero legislativo individuale la “trascendenza”, posto che questa parola ci conquisti ancora.
Si constata però che è arduo per gli psicoanalisti cogliere il loro profitto, i frutti, aldilà dell’onorario.
Anche il discorso di Freud è un discours qui n’est pas du semblant.



Poscritto: donne e Madonna



Fin qui il film di Gibson ci è servito come semplice spunto. Non mi trattengo però da un’obiezione a tre scene riguardanti la donna-madre:



1° la prima è quella di Gesù falegname come giuggiolone giulivo che scherza sul bravo tavolinetto che ha fabbricato. La scena è già ingiuriosa, per ora solo verso lui. Ma poi l’ingiuria si aggrava come misoginia, ossia verso la donna: le getta un bicchiere d’acqua in faccia. Uno scherzo? Ma nemmeno nella mia adolescenza contraddittoria avrei concepito di fare un simile “scherzo” a una donna. Ho ricordato subito “Portiere di notte” nella relazione tra uomo e donna che mette in scena (specialmente una: lo “scherzo” del dono della testa tagliata).



2° la seconda è nella via crucis: la Madonna si avvicina al figlio massacrato, e analoga - nel ricordo attribuitole - il massacro del figlio alla banale caduta a terra del bambino piccolo senza danni. Nei due casi lei sarebbe apportatrice di una medesima consolazione (stessa idea in Braveheart).



3° Gravis in fundo.
La Chiesa non è sempre così stupida come sembra.
Lo psicoanalista che sono apprezza la testardaggine della mariologia tradizionale che, a costo di forzare la grammatica, traduceva Genesi 3, 15 con “ipsa conterit”, ossia “è lei a schiacciare” (la testa del serpente). Pur sempre, questa tradizione voleva un ruolo attivo della donna nella salus, non solo il ruolo della “pia donna” (così esclusivo in questo film).
L’acume o almeno furbizia di Caravaggio gli ha fatto decidere il compromesso della Madonna dei palafrenieri (riprodotta in figura 2): il tallone che schiaccia la testa del serpente è della Madonna, che però fa che il figlio partecipi all’atto (mi ricorda la Madonna del libro di Botticelli, in cui la Madonna istruisce il figlio nella lettura del Libro, rabbina del futuro rabbino).
Precettata all’archetipo della “santa donna” - da utero in affitto a pia donna dal muto dolore per la passione del figlio -, che altro le resta se non passare, attraverso un gradiente di variazioni, alla formazione reattiva? E, per dirla tutta, passare dalla parte del Nemico?
Vi allude Gibson - non so se per intenzione o lapsus - in quella scena della via crucis in cui due donne - una interprete del Diavolo, l’altra interprete della Madonna - percorrono la via in parallelo sui marciapiedi speculari fissandosi in volto ossia specchiandosi l’una nell’altra.



Osservava correttamente Lacan: “A’ sainte femme, fils pervers”.
Diavoli e Madonne a parte, è la madre patogena: intelligibile solo nella ragione del suo torto. Che è il torto del farsi finta origine di una perfidia irresistibile: finta origine di una domanda d’amore senza condizioni, “l’inconditionné de la demande d’amour” descritto da J. Lacan. Il ricatto dei ricatti, o l’angoscia.
La donna non è perfida in partenza (tutte lo sanno), come non lo è stata Eva nel peccato originale. La responsabilità maggiore in questo è dell’uomo-Adamo (sono dispiaciuto di dare torto in ciò ai miei venerati Padri della Chiesa) allorché, imputato da Dio, si difende accusando la donna (“è stata lei!”), ossia divorziando. E’ questo divorzio, non meno vile che maligno, il vero contenuto del peccato originale, perché abolendo il rapporto abolisce la sovranità, anzitutto legislativa, in quanto sovranità a due ossia condivisa (“dare i nomi alle cose”). Il Cristo di Gibson “frega” la donna sua madre come Adamo aveva “fregato” Eva. E allora la donna, Eva o Madonna, privata della sovranità, diventa “pia” nel dantesco significato riduttivo di “femminetta”. La sua formazione reattiva ha delle attenuanti, pur nell’avocare malignamente a sé un potere sostitutivo di quel potere legittimo che le è stato tolto. Nel “mito” della Madonna - lo sottolineo da tempo - questa donna è sovrana prima che madre, per via del coniugio con il sovrano. Lo Sposalizio di Raffaello dovrebbe venire riferito a tale coniugio, non a quello con Giuseppe.
Non a caso Donna Haraway vuole una (Ma)donna-cyborg: perché il cyborg è una formazione reattiva, tutte le possibili variazioni sul tema.



Giacomo B. Contri, Aprile 2004



Note illustrative:




Figura 1
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Figura 2
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Questo articolo e molti altri contributi sono sul sito http://www.studiumcartello.it/

Un'altra produzione "A NON È NON A" sempre di G. B. Contri che è dell'inizio di Studium Cartello nel '94/'95 intorno al principio di non contradizione, che ha dato origine a un libro si scarica su
http://www.edizionisic.it/SITO%202003/ANONA.pdf
e molte altre cose su
http://www.edizionisic.it/home-testi-online.htm
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lucia
Messaggi: 76
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Località: lugano

Messaggioda lucia » gio giu 24, 2004 4:37 pm

la fatica di leggere e tentare di comprendere e seguire il filo che lega l'intervento di Contri è impagabile

tra tutte le prese di posizione su Passion, da horror della peggior specie a meraviglioso gioco di sguardi, questa si distacca e plana altrove, dove non sono più le opinioni, ma il pensiero a dare le ragioni

Dante Balbo
Messaggi: 990
Iscritto il: ven feb 27, 2004 5:28 pm
Località: Lugano

Messaggioda Dante Balbo » sab giu 26, 2004 10:52 am

In redazione, quando abbiamo affrontato il tema e deciso di scriverci, è venuta l'idea di un dossier sulla rivista. ci sto lavorando e ho raccolto, solo spigolando, senza sistemjaticità, oltre 230 pagine di contributi. Il tema è vastissimo, perché ogni considerazione spalanca una finestra, un orizzonte di pensiero. Ricapitolare non è comprimere, riassumere, nel senso del compitino che facevamo a scuola elementare, ma ri-assumere, nel piacere di mangiare, per crescere. magnifica è l'idea di Lucia di un pensiero che pensa, riassume il giudizio e rigetta il brutto, perché brutto è stupido, sempre.
D.G.B.


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